Cronache

L’ex boss della coca e delle armi in mezzo a una strada: “Peggio di così non potevo finire”

Felice Ferrazzo, un nome che ancora incute timore e basta a evocare omicidi, traffico di droga e fucili, racconta la sua situazione di sfrattato che si ritrova senza un tetto sulla testa. "Dove vado, dove andiamo a stare io e mia moglie? Peggio di così non potevamo finire" commenta l’ex capobastone del clan di Mesoraca, poi pentito ma arrestato per ben due volte, attualmente sottoposto a obbligo di dimora a San Giacomo degli Schiavoni.

E’ stanco, Felice Ferrazzo. Ha trascinato un paio di borsoni riempiti in fretta dopo che i carabinieri e l’ufficiale giudiziario, per conto della Iacp, hanno cambiato la serratura dell’appartamento al secondo piano di via Biferno, a San Giacomo degli Schiavoni, e ora aspetta «non so nemmeno io cosa» vicino al Comune. Forse il sindaco, o il parroco, o qualcuno che lo aiuti a trovare un’altra casa.

Accanto c’è la moglie, una signora che sembra infinitamente più giovane di lui e invece «ho sessant’anni, sto con lui da sempre, abbiamo 5 figli». Eugenio, il maggiore, noto anche come Rosario il Calabrese, arresti per armi e raffinerie di cocaina tra San Salvo e Campomarino, si è già fatto il carcere e il programma di protezione. «Non sappiamo nemmeno dove sta, non lo vediamo da secoli». Si lascia scappare un sospiro: «Quel figlio mi ha rovinato la vita». La faccia tirata, la lacrima facile dietro agli occhiali da vista, il pullover liso e un telefonino da preistoria col quale «non posso chiamare, solo ricevere». Aspetta che il suo avvocato, Ruggiero Romanazzi, chiami per dargli una buona notizia. «L’unica cosa che mi interessa è avere un posto per dormire, anche un buco qualsiasi».

Il boss di Mesoraca è finito in mezzo alla strada. E non è un modo di dire. L’uomo che fu uno dei vertici della omonima Ndrina calabrese, protagonista di faide sanguinose per il controllo del potere, considerato mente e braccio di delitti cruenti fra ex affiliati e rivali, lui stesso scampato alla morte per miracolo durante un agguato di ‘Ndrangheta, prima collaboratore di giustizia, poi arrestato per armi e per infiltrazioni malavitose, che da vent’anni vive nel limbo dei testimoni, non ha un tetto sulla testa e nemmeno può allontanarsi da questo piccolo centro del BassoMolise che è San Giacomo degli Schiavoni, dove ha la residenza e dove il giudice ha disposto l’obbligo di dimora a suo carico. «Non so dove andare, io e mia moglie non sappiamo dove andare. Che guaio, come mi sono ridotto».

Felice Ferrazzo è stanco e incredulo. Il sole di mezzogiorno del 26 settembre ammolla il panino alla ventricina che è il suo pranzo masticato all’angolo di via Trigno, aspettando che torni il sindaco del paese Costanzo Della Porta. «Chiederò a lui aiuto, o al parroco». Felice Ferrazzo e la moglie hanno lasciato la casa di via Biferno dopo un anno e mezzo perché è una casa dello Iacp nella quale possono vivere solo i regolari assegnatari. «Ma io ho sempre pagato l’affitto» si giustifica, cercando una spiegazione qualunque in questa follia che gli è capitata tra capo e collo, quando – dichiara a denti stretti «volevamo solo un posto dove vivere la vecchiaia».

Strano personaggio, questo sessantenne che non rinnega il passato di violenza ma al quale piace ricordare che «non ho mai fatto una vista dissoluta, ogni sera mi addormentavo alle 9 dopo una giornata di lavoro, mia moglie può confermare». Un “lavoro”, il suo, sul quale è meglio non indagare, ma che si può immaginare per quello che gli inquirenti gli contestano: all’apice di un sodalizio criminale specializzato in rapine, traffico di cocaina dal Sud America, traffico di armi con ingerenze nei lavori pubblici, ramificazioni in Svizzera (dove lui stesso ha vissuto dieci anni), in Lombardia, in Abruzzo e Molise, dove è stato arrestato – proprio qui a San Giacomo degli Schiavoni – nel settembre 2016, nell’operazione condotta dalla Dia de L’Aquila passata alle cronache con il nome di “Isola Felice”.

«Ho sempre pagato l’affitto» ribadisce, quasi a voler puntualizzare che non è un moroso. L’Istituto Autonomo Case Popolari, che peraltro sta vivendo una situazione di grande confusione visto che la riforma è stata attuata dalla Regione Molise soltanto sulla carta, ha fatto esattamente quello che doveva fare: riappropriarsi dell’appartamento perché il beneficiario dello stesso si è trasferito a Termoli, rinunciando alla casa popolare. Se Felice Ferrazzo e la moglie fossero o no consapevoli che in quell’appartamento non ci potevano stare, non si sa. Ma lo Iacp ha agito da protocollo, e peraltro ha concesso alla coppia, informata dallo stesso legale tempo fa, un discreto lasso di tempo per trovare una soluzione abitativa diversa.

«Ma a San Giacomo non ci sono case in affitto» si difende lui, che ha bussato perfino alla chiesa del paese con la speranza di trovare una stanzetta, «almeno per qualche giorno, poi vediamo».
Felice Ferrazzo è stanco, incredulo e arrabbiato. «Mannaggia a me che sono venuto qua in Molise, a finire in mezzo a una strada. Uno fa tanto e poi si ritrova così, nel modo peggiore». Ha lasciato il crotonese, racconta tra una telefonata della sorella e uno sguardo al Municipio per vedere se è tornato il sindaco, nel 2000. Prima le Marche, poi il Molise, poi il Friuli, poi il Molise di nuovo. Vita da pentito, ma pentito non era. E poi sono arrivati gli arresti. L’ultimo nel settembre 2016, per le infiltrazioni di ‘Ndrangheta in Molise, accusa per la quale sta scontando l’obbligo di dimora nell’attesa del processo. E prima ancora, nell’estate 2011, l’arresto a Termoli, per l’auto carica di armi e munizioni nel garage di via Mazzini, vicino la stazione. Assolto, poi, per insufficienza di prove.
«Era roba di Eugenio, lui non c’entrava niente, aveva solo preso in affitto il garage ma per farci rimettere dentro la moto al figlio» dice la moglie, che difende il compagno di una vita, quell’uomo che tanto tempo fa la faceva vivere da signora. «Si alzava a mezzogiorno, non si doveva preoccupare di niente, diglielo anche tu».

Le cose sono belle che cambiate, oggi. Lei è l’unica a lavorare, una esistenza scandita dai ritmi delle due donne anziane per le quali fa la badante. Cascasse il mondo, ogni giorno sale sull’autobus che la porta a Termoli e si prende cura di una donna, poi la notte si sposta in una seconda casa, sempre a Termoli, e si prende cura di una seconda donna. Torna a San Giacomo al mattino. Così, tutti i giorni. E intanto cucina («mannaggia, ho lasciato nel frigo la pasta con le fave che avevo preparato ieri, e mo’ chi la vede più…»), lava e stira, prepara i vestiti per il figlio più piccolo, 20 anni, che lavora sulla costa e ogni tanto torna a casa. «Anche se ora una casa non ce l’abbiamo più» commenta spaesata, prima di riempire una borsa con poche cose e prepararsi per andare a Termoli, «perché io questo lavoro non lo posso perdere, è l’unica entrata che abbiamo».

Felice Ferrazzo la guarda, vorrebbe che non se ne andasse. «E io ora che faccio? Dove vado?». Sa che non può trattenerla, e lei lo rassicura, gli prova a fare un po’ di forza: «Vedrai che un posto lo trovi, dai. Ti chiamo dopo, tranquillo». Certe dinamiche di coppia sono identiche, che si tratti di incensurati o pluricondannati.
L’ex boss di Mesoraca, che sta in mezzo a una strada tra borsoni e buste di plastica, con in mano un telefonino da preistoria che riesce solo a ricevere, la saluta. Poi si volta, fa qualche passo verso il Comune, si copre la faccia con le mani: «E adesso io dove me ne vado?». (mv)

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