La storia e l'attualità

Il sacrificio del Sud – da De Gasperi a Bossi, da Marcinelle all’autonomia differenziata. Chi sono i veri parassiti?

La scrittrice lombarda Patrizia Morlacchi ripercorre in questo articolo documentato da fonti rigorosamente storiche e dati, l'amigrazione del Mezzogiorno italiano e il sacrificio del Sud che ha pemesso lo sviluppo e l'arricchimento del Nord Italia. Dalle miniere di carbne del Belgio alla Padania e alla Lega, un filo conduttore che attarversa gli ultimi 80 anni

 

MARCINELLE
Anche l’8 agosto dello scorso anno, come ogni anno, il Presidente Mattarella ha ricordano i morti di Marcinelle, la tragedia avvenuta in Belgio nel 1956 per l’incendio scoppiato nella miniera di Bois du Cazier. Il fuoco iniziò dal pozzo di entrata dell’aria e si propagò a tutta la miniera fino ai 975 metri di profondità. Il fumo uccise anche chi stava al di sotto fino ai 1035 metri del fondo della miniera. La miniera era stata aperta nel 1830 e le strutture interne al pozzo erano ancora in legno, non vi erano porte stagne taglia-fuoco, non vi erano estintori. Dei 275 lavoratori presenti quel giorno ne morirono 262 di cui 136 erano italiani, quasi tutti meridionali, quasi la metà abruzzesi, 7 molisani. Le poche salme ritrovate tornarono in superficie chiuse in sacchi di iuta, i familiari fecero i riconoscimenti attraverso oggetti personali. La maggioranza fu data per dispersa.

L’EMIGRAZIONE IN BELGIO
Tutti gli italiani erano arrivati in Belgio a seguito del patto siglato tra il Governo italiano e quello belga il 23 giugno 1946. All’epoca era Presidente del Consiglio l’on. Alcide De Gasperi. Il Belgio soffriva di carenza di mano d’opera e viceversa l’Italia aveva una grave disoccupazione ed inoltre aveva bisogno di carbone per le industrie del Nord del paese. Il Protocollo sottoscritto prevedeva carbone in cambio di uomini. Inizialmente si programmava un numero di 50.000 lavoratori in gruppi di 2.000 a settimana, al massimo trentacinquenni, per il lavoro “di profondità” in miniera. In cambio il Belgio avrebbe rifornito l’Italia con 2500/5000 tonnellate di carbone, a seconda della qualità del fossile, ogni 1.000 operai inviati. La durata del contratto prevista era di dodici mesi rinnovabili con vincolo a 5 anni. Da quel momento in molti bar della penisola comparvero manifesti rosa che invitavano a cogliere questa opportunità di lavoro. I candidati venivano sottoposti a tre visite mediche, la prima nel comune di residenza, la seconda in un ufficio provinciale di controllo, la terza ed ultima a Milano nell’ex caserma di Piazza Sant’Ambrogio. Un ulteriore controllo veniva poi fatto da una commissione tecnicosanitaria in Belgio. I treni partivanoa carico completo perciò, in attesa del riempimento, i reclutati rimanevano confinati in camerate nei sotterranei della stazione centrale anche due o tre giorni. I treni non potevano modificare né orario di partenza, né itinerario e viaggiavano senza fermate sino all’arrivo a Namur dove poi i lavoratori venivano smistati, senza avere idea di dove sarebbero andati. Sui treni vi era l’assistenza di un interprete italiano. Nel meticoloso testo dell’accordo era previsto che il governobelga avrebbe fornito l’alloggio, che questo sarebbe stato riscaldato, che ogni lavoratoreavrebbe avuto un letto con rete metallica, preferibilmente non a castello, un materasso non di paglia, un armadio, le copertenecessarie e lenzuola che sarebbero state cambiate ogni 15 giorni.

Di fatto i lavoratori verranno alloggiati nelle baracche di lamiera che spesso erano servite aitedeschi per i prigionieri russi, con una stufa a carbone, con servizi igienici collettivi e all’aperto.Per questo alloggio e il vitto (prima colazione, pranzo in asporto e cena “secondo le abitudinialimentariitaliane, ma nel quadro di razionamento” post bellico in vigore in Belgio) ogni italianopagava 50 franchi al giorno, pari a 688 lire.Il salario giornaliero, che nei manifesti rosa era indicata in una media di3.949 lire, di fatto erain media di 2.450 lire perché il resto era una variabile costituita dal lavoro acottimo.
Erano previsti assegni familiari anche per i figli residenti in Italia pari a 3.938 lire al mese perun solo figlio fino a 28.500 lire per 5 figli.Nei primi mesi di lavoro il salario veniva decurtato ratealmente per pagare le spese di in treno dei lavoratori dall’Italia al Belgio.

Per chi era traumatizzato dall’idea di scendere a 1.500 metri di profondità calato in un pozzo,in un ascensore attaccato ad un cavo in corda e voleva ritornare in Italia c’era la reclusione nella prigione di Petit Chateau di Bruxelles per una decina di giorni a mezza razione di vitto in mododa dare tempo per cambiare idea. Per chi voleva ostinatamente tornare c’era un rimpatrioforzato in un convoglio per detenuti.

Per i minatori che lavoravano con assiduità si consentivano 6 giorni di ferieall’anno che, in casodi rinuncia (e per chi veniva dal Sud dell’Italia era giocoforza rinunciare viste le distanze da percorrere) i sei giorni venivano retribuiti il doppio. Se non si faceva mai un giorno di assenza l’anno successivo erano previsti 12 giorni di ferie. Il Belgio, a conti fatti, dava all’Italia circa 100 kg. di carbone al mese per ogni lavoratore. I soldi che guadagnavano i nostri connazionali non venivano versati direttamente a loro, ma venivano accreditati su un conto corrente collettivo in franchi belgi senza interessi e costituivano in primis la disponibilità per pagare il carbone che l’Italia comperava in surplus. Ciò saldato, il resto veniva considerato come un sotto-conto disponibile ad un trasferimento in Italia dove lo Stato pagava il salario alle famiglie dei minatori. Dal 1947 al 1950 sono partiti per il Belgio 83.012 lavoratori. Ne tornarono circa 30.000, per ragioni di salute o perché impauriti dall’attività richiesta. Nel corso del tempo si evidenziò che la particolare condizione di lavoro sul fondo delle miniere, a causa dell’atmosfera intrisa di polvere impalpabile di carbone, era micidiale per gli occhi, per il fegato e per i polmoni e dava origine a svariate patologie la più grave delle quali era la silicosi, riconosciuta come malattia professionale in Belgio soltanto nel 1963 (In Italia era obbligatoria una copertura assicurativa specifica per la malattia già nel 1943).

Dal 1947 al 1956 sono partiti verso il Belgio circa 290.000 italiani. Nei primi anni tra di loro vi erano anche veneti e friulani (14%), ma dal 1950 in poi gli emigranti provenivano quasi esclusivamente dalle regioni meridionali dell’Italia.

ALCIDE DE GASPERI
Alcide De Gasperi (che era nato in trentino nel 1870 quando era ancora territorio austroungarico ed era stato deputato del parlamento austroungarico dal 1911 al 1918 e poi fu deputato nel Parlamento di Roma dopo il 1920, quando il Tirolo divenne italiano) era un entusiasta sostenitore della politica migratoria e sottoscrisse diversi protocolli d’intesa in proposito con i principali stati europei.

Sempre nel 1946 firmò un accordo con la Francia, con la Svizzera e con l’Inghilterra e nel 1955 anche con la Germania per quote di emigranti programmate, la cosiddetta “emigrazione assistita”.
Dal Belgio, come dagli altri paesi europei ed extraeuropei, arrivavano soprattutto le rimesse degli emigranti, cioè i loro salari che, depositati nella Cassa Depositi e Prestiti, fungevano da volano della ripresa economica postbellica. In un noto discorso che De Gasperi pronunciò a Venezia, nell’intervento conclusivo del 3° congresso della Democrazia Cristiana, nel giugno del 1949 disse che avrebbe rinunciato volentieri anche all’intervento Erp (il cosiddetto Piano Marshall, i soldi che gli americani ci diedero nel dopoguerra e che De Gasperi destinò per l’87% al Nord Italia) in cambio dell’aumento delle quote migratorie perché le rimesse degli emigrati arrivavano subito mentre gli aiuti americani erano molto più lenti.

Studi successivi ci dicono che in realtà l’Italia non aveva davvero bisogno del carbone belga che era di cattiva qualità e per il rapporto qualità/prezzo era molto più conveniente il carbone americano. L’Italia aveva bisogno delle rimesse degli emigranti e, a tale scopo, vendeva uomini per condizioni di lavoro disumane.

L’Italia metteva in piedi, con De Gasperi, il più grande processo di emigrazione della sua Storia in un momento in cui il Paese era tutto da ricostruire. Per molti un paradosso. Da segnalare che il Centro per l’emigrazione, costruito a Napoli inaugurato nel 1955, costò più di un miliardo di lire dell’epoca. Una cifra esorbitante a dire l’enorme sforzo che si fece per perseguire la politica dell’espatrio allo scopo di avere le rimesse degli emigranti.

Con la tragedia di Marcinelle, i trasferimenti verso il Belgio si fermarono continuando verso le altre mete europee, americane e sudamericane. Da lì a pochi anni, nel 1959, i nostri lavoratori si rivolsero soprattutto verso la Germania, che aveva un sistema di accoglienza molto meno degradante. E’ da notare che la Germania, un paese completamente distrutto dalla guerra, in condizioni disperate economicamente, iniziò una costante progressione produttiva perseguendo la politica di ricostruzione del territorio e trattenendo sul suolo tedesco le proprie forze di lavoro e di consumo.

LA LEGGE 646 E LA 647 DEL 1950
Durante il sesto governo De Gasperi, il 10 agosto del 1950, fu varata la legge speciale per il Sud, la legge numero 646. Gli aiuti in realtà erano rivolti non soltanto alle regioni del Sud, ma anche a gran parte del Lazio, delle Marche e alle isole toscane. Pochi ricordano che la legge varata in immediata successione il medesimo giorno, la 647, contemplava gli aiuti straordinari per l’Italia Settentrionale e la Toscana, utilizzati in larghissima parte dal Veneto. La prima legge fu chiamata Cassa per il Mezzogiorno. La seconda restò anonima.

Nel mentre si varavano aiuti straordinari per il Mezzogiorno, equivalenti a circa 80-100 miliardi di lire l’anno, pari allo 0,50-0,65% del Pil italiano (al Nord nel frattempo lo Stato spendeva il 3,5% del Pil), arrivano copiose le rimesse degli emigranti. Dal 1950 furono di circa 200 milioni di dollari all’anno, nel 1958 furono di 336 milioni di dollari per arrivare, nel 1963, ad un introito annuale di 638 milioni di dollari. Poiché in quegli anni un dollaro valeva mediamente intorno alle 625 lire, sta a significare che ogni anno entravano in Italia dal lavoro degli emigranti dai 200 ai 400 miliardi di lire.

Negli anni successivi il valore si accrebbe ancora fino a superare nel 1969 il miliardo di dollari e cioè oltre 625 miliardi di lire. Sono questi gli anni del grande boom economico del Nord Italia. Infatti, anche nel secondo dopoguerra, come era avvenuto già nel primo decennio del ‘900, in Italia continuava, grazie ad una concentrazione di infrastrutture e di operazioni finanziarie, la formazione del cosiddetto “triangolo industriale” Milano, Torino, Genova creando effetti moltiplicativi di sviluppo.
Da dove venivano i capitali che consentirono sia la prima che la seconda rivoluzione industriale italiana al Nord? Con concordanza di giudizi degli studiosi, si riconosce che i mezzi finanziari per l’industrializzazione italiana venivano soprattutto dalle rimesse miliardarie dei milioni di emigrati del Sud. (vd. Francesco Barbagallo, La questione italiana, 2011). Valga per tutti: “Non importa ritornare sull’annosa questione del perché questo avvenne e sulle alternative possibili…. ciò che importa è che l’Italia scelse di esportare un massa-lavoro trasformando gli emigranti in produttori di reddito all’estero” (F. Bonelli, Il capitalismo italiano, Einaudi 1978). E, a cominciare dalla grave crisi di liquidità della Fiat nel 1907, salvata dalla Banca d’Italia con il prelievo temporaneo delle rimesse degli emigranti dalla Cassa Deposito e Prestiti, si proseguì ad usare l’enorme sacrificio dell’emigrazione meridionale, con le enormi risorse che produceva, come modello dello sviluppo capitalistico italiano.

Intanto il grande svuotamento di risorse umane del Mezzogiorno segnò un costante ampliamento della forbice tra le condizioni economiche e sociali del Nord rispetto al Sud. E ancora oggi questo prelievo di uomini e donne dalle terre meridionali è drammatico e causa uno spopolamento che appare quasi irreversibile. E, dal sacrificio alla beffa, l’emigrazione dei meridionali veniva e viene interpretata come un debito da pagare alla loro incapacità di fare.

E così negli anni 80 si presentò sulla scena politica italiana un certo Umberto Bossi che, a detta di tutti, divenne famoso nel paese d’origine per aver dato due feste di laurea senza mai essersi laureato, per aver fatto finta di andare ogni mattina a lavorare a Milano, mentre passava la giornata tra i bar a giocare a biliardo, un autentico “bauscia” fannullone che lodava e celebrava la laboriosità dell’uomo padano, di origine celtica, di contro al “terrone” nullafacente  parassita.

Famosi gli slogan: “Roma ladrona”, “Lombardia, la gallina dalle uova d’oro”, “No allo strapotere meridionale”, “Lumbard tas!”, “Prima il Nord”. E con questi paradossali messaggi, l’uomo che meno interpretava il lombardo medio, fondò la “Lega Lombarda per l’indipendenza della Padania”. Tuttora nell’art. 1 del dello Statuto della Lega è affermata questa finalità che oggi la Legge Calderoli per l’Autonomia Differenziata persegue con tenacia. Il pensiero leghista, che è razzista e incolto, ha preso piede nel Nord e si è dilatato nel modo di leggere la realtà settentrionale anche presso chi non si crede leghista, ma anzi si sente progressista.

Nella mia Lombardia – perché sì, sono lombarda doc – la postura leghista è un modo di essere di quasi tutti grande sacrificio del Sud, con l’emigrazione verso l’estero e verso il Nord, politicamente voluto e determinato, senza pensare a politiche alternative se non per brevi periodi, non è stato mai nemmeno riconosciuto come tale. Riguardo agli anni del boom economico ci sarebbe, invece, da chiedersi quanto il vagone Sud, che portava enormi quantità di denaro e braccia e cervelli, abbia messo in moto e spinto sulla salita più impervia la cosiddetta “locomotiva del Paese”.

Il contributo allo sviluppo che l’uomo del Sud, l’umanità Mediterranea, del tutto senza arroganze, ha dato al Paese deve oggi essere riconsiderato, valutato e compensato non a chiacchiere pietose (la lacrimuccia dell’istituzione), ma economicamente, con investimenti strutturali e sociali veri nel Mezzogiorno, per attuare finalmente quanto previsto in Costituzione, e specificamente dall’art. 3, pari possibilità e pari opportunità per tutti, con il dovere per lo Stato di rimuovere gli ostacoli economici e sociali che limitino l’eguaglianza. Si deve chiedere con forza una politica di Equità Territoriale.

“E dopo aver impedito al Sud di essere e di fare, si incominciò a rimproverare al sud di non essere e di non fare” (Pino Aprile)