Cronache

Pubblicare il nome di chi muore, perché non siamo solo numeri. Ma smettetela con la caccia all’untore sui social

Ieri pomeriggio all’ospedale Cardarelli di Campobasso, nel reparto di Malattie Infettive, è morto un signore di 91 anni con sindrome da Covid19. Primonumero.it ha scelto di pubblicare il nome, così come accaduto altre volte in questa situazione (ad eccezione degli ospiti deceduti nelle case di riposo) per restituire alle vittime un po’ della loro “storia” e inquadrare il dramma all’interno di una dimensione di umanità. Campobasso, centro piccolo in cui ci si conosce tutti, sta soffrendo un numero di contagi molto elevato, e la morte di un cittadino diventa – è inevitabile che sia così – un dramma di tutti.

Riflettere su una morte legandola a un nome, a una identità, a un volto che abbiamo incrociato, è utile a non archiviare determinate tragedie solo come meri dati statistici e numerici, ma a alimentare un sentimento di vicinanza, che dovrebbe costituire la trama portante del tessuto sociale delle piccole comunità.

Siamo disorientati però quando osserviamo che tra gli effetti collaterali di questa operazione di trasparenza e ricordo delle vittime, soprattutto in un momento storico in cui è difficile perfino dare l’ultimo saluto a un nostro caro, si registra la squallida caccia all’untore sui social e si moltiplicano le illazioni su presunti comportamenti “irresponsabili” dei familiari.

Nel caso in questione è ancora più grave, visto che alcuni parenti della vittima gestiscono un negozio di alimentari, fra le poche attività rimaste aperte nel lockdown del momento. Oltre a condannare senza appello lo squallore dei commenti che si rincorrono sui social, dei quali non possiamo assumerci la responsabilità, dobbiamo fare una precisazione che sembra scontata ma che, alla luce di tante eresie e farneticazioni lette, evidentemente non lo è.

Chi si ammala di coronavirus è una vittima, una persona che soffre e che non ha alcuna colpa. Nessuno sceglie di ammalarsi, nessuno adotta “comportamenti irresponsabili” per mettere a repentaglio, prima di tutto, la sua salute. E’ da irresponsabili far passare il messaggio contrario.

Inoltre nel caso in questione l’anziano deceduto è rimasto isolato dalla sua famiglia da settimane, né i suoi cari lo avrebbero potuto vedere e frequentare. L’intera famiglia si trova in strettissimo isolamento da settimane, e pur non essendo costretta a farlo, evita di uscire anche solo per andare a fare la spesa, preferendo farsela consegnare a domicilio. I gestori del negozio di alimentari di famiglia non hanno avuto alcun contatto con il loro caro che ieri pomeriggio ha perso la vita.

La moglie dell’uomo, anziana anche lei, è in quarantena a casa assistita dal figlio che non può sottrarsi a questo compito perché altrimenti la lascerebbe sola, a sua volta in quarantena. Non vedono nessuno da settimane. E ora aggiungono al dolore della perdita lo strazio di non poter nemmeno seguire il funerale, e nemmeno compiere una di quelle operazioni che ci sembravano tanto scontate e “normali” come scegliere una bara e pregare davanti a una lapide.

Con l’aggravante che la moglie dell’anziano, come ha raccontato a Primonumero.it la nipote, non è ancora stata sottoposta a tampone, così come non è stato sottoposto a tampone lo zio che la assiste. E questo malgrado il fatto che siano gli unici ad avere avuto “contatti” con il loro congiunto, e che l’attesa – lacerante, come si può immaginare – duri da dieci giorni.

Sono queste le situazioni sulle quali si dovrebbe riflettere, restando uniti e provando a trarre da questa vicenda l’unico insegnamento possibile. Siamo tutti impotenti davanti a questo dramma, tutti potenzialmente contagiati e contagiosi, tutti uguali davanti a una malattia che ci interroga in profondità e ci spaventa, ma nello stesso tempo pone al centro dei nostri pensieri ciò che abbiamo provato a dimenticare: la morte, la malattia, la sofferenza.

Scatenare su facebook il solito dibattito su “di chi è colpa” e su “chi ha incontrato chi” è da idioti e irresponsabili. La responsabilità dovremmo averla prima di tutto verso noi stessi, provando a essere un po’ meno pieni di pregiudizi e un po’ più attenti all’altro e rispettosi dei sentimenti e del dolore di chi abita a 20 metri da casa nostra. Altrimenti è del tutto inutile continuare a proclamare ce la faremo. Ce la faremo, prima persona plurale, implica un NOI.

commenta