Una rinascita contemporanea

Strazio e coraggio di una madre che ha denunciato il figlio: “Meglio in carcere che drogato”

Il racconto di una donna che ha fatto il possibile per tirare fuori dai guai il suo ragazzo. Ha chiesto all’Autorità giudiziaria di aiutarla. Anche criticata e condannata da per averlo fatto, oggi confessa: “Se tornassi indietro in quell'inferno, rifarei esattamente la stessa cosa. Chi giudica non sa di che parla. La droga è come un cancro: metastatizza e distrugge tutto ciò che c’è attorno alla vita di ognuno”

Quarantanove anni, casalinga, due figli. Il primo, 20 anni, è stata lei a denunciarlo “per salvarlo dalla droga”, racconta.

E decide di raccontare quel momento perché quando ha scelto di denunciare il suo ragazzo per aprirgli con il suo racconto le porte del carcere ha ammesso di aver trascorso momenti difficili. Non soltanto per la scelta coraggiosa e obbligata di una madre ma anche perché il pregiudizio e la condanna sociale l’hanno spesso ghettizzata. “Per questo – oggi ammette – sono sicura che in questa provincia del problema droga non ci sia alcuna consapevolezza”.

Ha subito, e qualche volta subisce ancora, commenti spregevoli su quella decisione “che ha riguardato me ed altre mamme come me”.

E quindi “a questo punto – dice – racconto e dico la mia, e lo faccio attraverso un canale che va al di là della mediocrità dei giudizi affrettati, ciechi, ignoranti perché non sanno, perché pensano finanche che la droga sia lontana anni luce dai loro ragazzi. Anche io lo pensavo”.

C’è stato pure chi le ha augurato di morire ma alla “fine chi arriva a tanto è sempre quello o quella che non ha figli”.

“C’è stato pure chi mi ha addebitato la tossicodipendenza di mio figlio e chi mi ha accusato di non averlo aiutato ad uscire fuori dal tunnel”, ma che ne sanno “questi signori di quello che accadeva a casa mia?”.

Il suo ragazzo faceva uso di tutto: crack, coca, pasticche… “e per lui ho fatto di tutto, sin dal primo segnale: le cartine per fare le canne che trovato in una tasca dello zaino di scuola”. Aveva 18 anni.

Ho chiesto aiuto a psicologi e ad assistenti sociali ma la risposta era sempre la stessa “è maggiorenne, più di tanto non si può fare”.

“Allora ho provato a parlargli, a privarlo del necessario, a punirlo, l’ho seguito, ho contattato e pure minacciato i suoi amici che per me erano quelli sbagliati, penso di aver fatto quello che nessuna mamma avrebbe mai immaginato di fare nella sua vita con i propri figli. E’ stato tutto inutile”.

L’intromissione di questa mamma nella vita di suo figlio presto è diventata, infatti, motivo di ulteriori scontri.

Il giovane inizia ad insultarla. Sempre. Dall’insulto il passo agli spintoni e poi alle botte è breve. Quindi le minacce di ucciderla. E ogni volta sempre con più forza e più violenza. “Una sera ha distrutto mezza casa, ha buttato roba dal balcone, a quel punto ho chiamato le forze dell’ordine che lo hanno portato via”.

E’ il giorno dopo che questa mamma ha salito le scale della procura di Campobasso: “E l’ho fatto perché sapevo della battaglia che l’autorità giudiziaria di Campobasso sta conducendo contro l’uso di sostanze stupefacenti”. Seduta su una sedia nella quale lei, piccola e minuta, finanche si perdeva, al magistrato ha raccontato tutto d’un fiato. Ha spiegato minuto per minuto il suo inferno quotidiano e ha chiuso quella confessione con una supplica: “Se potete aiutatelo. E se deve andare in carcere, ci vada ma non mandatelo ai domiciliari”.

La sua storia è simile a tante altre purtroppo e il Capo della Procura, Nicola D’Angelo, lo rammenta proprio in occasione del convegno all’Unimol: “Droga e mafia in Molise”. 

Ha rivisto suo figlio quando è stato portato in carcere. Lui le ha sussurrato: “mamma…” e in quel momento “ho rivisto il mio bambino, il mio ragazzo col sogno del pallone, con buoni risultati a scuola fino al quarto anno, il mio playboy preferito. In quel momento ho visto mio figlio, sì il mio – non il vostro (dice riferendosi a chi ha avuto la faccia tosta di condannarla) – che salendo in quella macchina che lo avrebbe portato in carcere stava portando via con sé il mio cuore, la mia esistenza. Quel dolore – vorrei dire a tutti quelli che mi hanno giudicata e condannata – sappiate che è un dolore mai spento. “Mi accompagna tutti giorni, tutte le notti. Non mi abbandona alla sera prima di dormire ed è ancora lì quando apro gli occhi la mattina. A quelli che con tanta mediocrità e ignoranza hanno criticato inopportunamente la mia scelta dico che se la mia morte fosse servita a salvarlo, sarei morta volentieri. Ma purtroppo non sarebbe servita. Abito in un piccolo centro e oggi le persone o provano pietà o mi evitano. Io non ho bisogno della pietà di nessuno e se vogliono possono fare a meno di incontrare il mio sguardo. Non vivo con loro né loro vivono con me, dunque di loro a me non importa. Sappiano però che io tutti i giorni – anche se mio figlio è stato in carcere – conduco una lotta per salvarlo. Ho fatto di tutto per farlo entrare in una comunità, ci sono riuscita. Da quasi un anno è lì. Quando possibile vado a trovarlo. Quelle volte che accade è sempre una riscoperta: qualcosa di nuovo che torna ad unirci, ma so bene che il percorso è ancora lungo. Io lo so ma soprattutto adesso lo sa anche lui e questa consapevolezza, quella che la droga gli ha soltanto tolto e che adesso dobbiamo ricostruire tutto daccapo, per noi è già una mezza vittoria”.

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