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Un profeta non è disprezzato se non in patria

XIV Domenica del Tempo Ordinario – Anno B
Un profeta non è disprezzato se non in patria (Mc 6,1-6)

In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità. Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.

Sembrerebbe essere una frase buttata lì e poi diventata un proverbio (nemo propheta in patria) ma dice qual è l’identità e il destino di ogni vero profeta, almeno secondo la bibbia. Sì, perché ci sono due modi di intendere il profeta che, letteralmente, non è chi prevede il futuro, come si pensa, ma è colui che dice una parola da parte di Dio sull’uomo e sulla società a cui viene inviato. Il primo modo è quello del mestierante, del dipendente del governante di turno, che è chiamato a consultare gli dèi ma quasi sempre dice una parola favorevole al capo; anzi, ne fa una vera e propria fonte di sostentamento e di arricchimento, come dice il profeta Michea: “Così dice il Signore contro i profeti che fanno traviare il mio popolo, che annunciano la pace se hanno qualcosa tra i denti da mordere, ma a chi non mette loro niente in bocca dichiarano guerra” (3,5). Il secondo è quello ci chi vede il male nel mondo in cui vive e lo denuncia, come fa Amos, che non si identifica con i profeti venduti ma denuncia le ingiustizie commesse anche in nome di Dio. Gesù rientra in questa seconda categoria, in quanto si mette dalla parte degli emarginati della società in cui vive, dice quello che i suoi connazionali non si vogliono sentir dire, vede oltre gli accomodamenti del pensiero dominante, per cui viene visto come un alieno, un corpo estraneo. Anzi, per sminuire la forza del suo messaggio, viene ridotto alla sua famiglia di origine; come a dire: noi sappiamo chi è veramente quest’uomo e, anche se vuole farci la predica, non è altro che uno come noi. Forse la sua famiglia è ben inserita in quel contesto e, a quanto dice l’evangelista, mal sopporta le intemperanze di Gesù se un giorno è andata addirittura a riprenderlo perché considerato pazzo. Al nostro tempo questo vangelo dice che, se in nome di Gesù difendiamo lo status quo, tolleriamo le ingiustizie e avalliamo l’esclusione di una parte dell’umanità, siamo come quei profeti asserviti al potere, che dicono anche cose belle spiritualmente ma non danno fastidio ai manovratori. Se invece obbediamo in coscienza al vangelo, non possiamo pretendere di essere accolti con gli applausi e che tutti pendano dalle nostre labbra, ma dobbiamo mettere in conto l’essere rifiutati o perseguitati.

Michele Tartaglia

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