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Non vi chiamo più servi ma amici

VI Domenica di Pasqua – Anno B
Non vi chiamo più servi ma amici (Gv 15,9-17)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone, ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».

L’affermazione di Gesù fa sorgere una domanda: quando, nel vangelo, Gesù ha definito i suoi discepoli servi? In realtà mai in modo diretto, al limite li chiama con l’appellativo di “diaconi”, ma non schiavi o servi. Dicendo di non chiamare più servi i discepoli, Gesù forse allude al rapporto che intercorreva tra il popolo d’Israele e Dio stesso: gli israeliti si definivano “servi di Dio”, il culto era il loro “servizio” e Dio era soprattutto definito come padrone, proprietario. Paolo ha detto che i cristiani non hanno ricevuto lo spirito da schiavi per vivere nella paura, ma di figli che hanno una relazione intima con Dio Padre e con Gesù, di cui sono fratelli, una relazione che è basata sull’amore e conduce alla pace e alla gioia. I sentimenti che maggiormente sono espressi nel Nuovo Testamento, infatti, sono proprio l’amore, la gioia e la pace, definiti da Paolo frutto dello Spirito e anche Giovanni mette l’accento sulla gioia che nasce da una relazione intima con Gesù e con Dio. Sebbene durante la storia cristiana si è favorito un modo di intendere la relazione con Dio fondato sulla paura e la sottomissione (la leggenda del grande inquisitore, contenuta nel romanzo “I fratelli Karamazov”, lo dice in modo illuminante), l’esperienza fatta dai primi discepoli di Gesù, testimoniata dal Nuovo Testamento, ci ricorda che non si è realmente cristiani se non si sperimenta la gioia di sentire Dio dalla propria parte; una gioia che porta a donarsi, come conseguenza di un amore ricevuto gratuitamente da Dio attraverso Gesù. L’amicizia di e con Gesù ci porta a superare la religione della paura che tiene prigionieri anche noi cristiani, una paura che spesso imponiamo agli altri a forza di giudizi e condanne. Gesù non ci chiede di diventare suoi schiavi ma suoi amici, che collaborano con lui nel far sperimentare ad un’umanità smarrita chi è Dio e ciò che desidera per il nostro bene: sentirsi amati e incoraggiati a fare il bene anziché a chiuderci in una visione egoistica della vita, che diventa un anticipo di morte. La risurrezione di Gesù, infatti, non è il finale che mette in scena la rivincita del supereroe di turno, ma il simbolo di cosa significa vivere davvero, mentre chi non ama, anche se respira, è già morto dentro.

Michele Tartaglia

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