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Il buon pastore dà la sua vita per le pecore

IV Domenica di Pasqua – Anno B
Do la mia vita per le pecore (Gv 10,11-18)

In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

L’uso che Gesù fa dell’immagine del pastore e delle pecore è paradossale: nella vita normale sono le pecore a disposizione del pastore che le alleva, fa uso dei suoi prodotti e se ne nutre. Probabilmente è anche per questo che nel mondo antico la retorica politica usava volentieri l’immagine del pastore riferita al re: il patto non scritto era che un re guida in modo saggio e accorto il popolo ma ha il diritto di servirsi del popolo come proprietà personale, decidendo quali politiche economiche adottare, quanti tributi pretendere e ovviamente quando andare in guerra, sacrificando parte del popolo se si tratta di conservare o accrescere il proprio potere. È in questo senso che anche l’Antico Testamento adotta questa immagine: il profeta Ezechiele rimprovera i cattivi pastori che non amministrano bene il popolo ma non mette in dubbio che essi possano avanzare pretese, dopo aver amministrato bene. Dio stesso decide di fare da pastore di coloro da cui prende già ciò che vuole attraverso i sacrifici fatti nel tempio e il rispetto di regole da lui imposte.

Per Gesù invece accade il contrario: è lui a dare la vita per le pecore, le conosce ad una ad una perché non sono una massa informe, ma ciascuna è preziosa ai suoi occhi, tanto che può, in caso di necessità, lasciare le altre per prendersi cura di quella che ha più bisogno. Gesù non sfrutta le pecore, ma si lascia sfruttare, si dona totalmente perché il suo gregge abbia la vita e sia difeso dai nemici. Non fa guerra per accrescere il proprio potere, sacrificando per la ragion di stato i propri sudditi, ma chiede ai suoi, chiamati amici, di seguirlo liberamente nel dare la vita non per lui, ma per gli altri simili, di cui si è chiamati a divenire custodi.

Certo, anche nella retorica politica cristiana così come nella retorica ecclesiastica il potere è diventato servizio (il papa, ad esempio, porta il titolo di servo dei servi e supremo pastore). La differenza però tra una definizione retorica e la realtà sta nella capacità o meno di mettersi in gioco: è pastore non chi ricopre una carica ma chi veramente mette a rischio la propria vita per difendere i deboli dai soprusi e dalla violenza dei forti. Pastori veri sono stati don Pino Puglisi, don Peppe Diana, Oscar Romero, Annalena Tonelli e altri come loro, che non hanno passato il tempo a difendere i privilegi della propria casta ma si sono fatti carico del grido degli oppressi come Gesù, che ha donato la sua vita fisica per dare a tutti noi la possibilità di vivere veramente.

Michele Tartaglia

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