Cultura & Spettacolo

”Quando Dalla mi rispose su ‘Caruso’, spiegando ad un profano il successo di questa canzone”

Rimestando tra le mie carte, gelosamente conservate e catalogate, ritrovo una serie di appunti, mai resi pubblici, su di un incontro che, casualmente, ebbi in Bologna con Lucio Dalla nel corso di un incontro in ‘Sala borsa’ in cui il giornalista Peter Gomez avrebbe dovuto presentare l’uscita de ‘il Fatto quotidiano’ digitale. Le annotazioni concernono il noto ritornello di ‘Caruso’, laddove il cantore bolognese recita ”Te voglio bene assai, ma tanto tanto bene sai. E’ ‘na catena ormai che scioglie ‘o sanghe dint’ ‘e vene sai”.

Per intendere meglio l’assunto riuscirà opportuno citare un altro ‘refrain’, quello di ‘Dicitencello vuje’, le cui parole portano  la firma di Enzo Fusco. Ad un certo punto il poeta recita ” ‘A voglio bene …, ‘a voglio bene assaje. Dicitencello vuje ca nun m’ ‘a scordo maje. E’ ‘na passione, cchiù forte ‘e na catena ca mme turmenta ll’anema … e nun mme fa campà”. Queste parole hanno un chiaro significato. Esprimono il tormento dell’innamorato, stretto da una passione più forte di una catena. Ma la passione gli tormenta l’anima e non gli permette manco di vivere con un minimo di soddisfazione.
Al contrario, le parole di Dalla, in ‘Caruso’, non hanno un significato logico. Mi permisi di sottolinearlo a Lucio, durante il sunnominato incontro. Infatti come potrebbe una catena, che non è una passione, sciogliere il sangue nelle vene. Al più si potrebbe immaginare che il vincolo amoroso, di cui l’artista dice di essere avvinto in maniera implacabile, non possa sciogliere nè tantopiù ‘gelare’ il sangue nelle vene. A mente ferma va notato che lo scioglimento del sangue, essendo, in linea di massima, un evento positivo o addirittura miracoloso, risulta assai difficile da interpretare come metafora di uno struggimento, di una pena o di una immedicabile ferita d’amore. Ciò malgrado, le parole della canzone di Lucio risultarono immediatamente e perfettamente familiari al più vasto pubblico e, quel che più conta, sembrarono perfettamente ‘napoletanizzate’, sicuramente indicative di una maniera tutta partenopea di esprimere un sentimento ridondante ed effusivo.
Ricordo che, dialogando con me, l’artista convenne. Esordì dicendo che la politica, in tv, ha insegnato che non è più importante ‘cosa’ si dice ma ‘come’ si abbia a diffondere un concetto. ”Questo vale anche per la mia canzone – mi disse in tutta modestia – in cui, dopo il ritornello, la passione esplode in un pieno armonico che si fissa nella memoria. Insomma non v’è dubbio che, oggi, sia la musica l’elemento che conta di più e che sia tale malgrado il fatto evidente che, sulle parole ‘bene’, ‘catena’ e ‘vene’ cadono gli accenti più forti”. Insomma sarebbero stati questi tre sostantivi, in sequenza, ”ad esprimere un chiarissimo sentimento passionale e carnale insieme, costituendo una convincente epìtome partenopea”.

Tanto, ne era convinto Lucio, bastava a procurare ‘senso’ ad una strofa che senso, in effetti, non ha. In poche parole, l’ascoltatore avrebbe provveduto da sè a corredare di senso le parole poco sensate del componimento. E la musica avrebbe ‘soccorso’, offrendo un sostegno emotivo, cosicchè ciò che appariva oscuro avrebbe chiarito il tutto ed ogni frangia di eventuale insignificanza si sarebbe stemperata nella vaghezza dell’immagine lirica. Cosicchè, nella canzone ‘Caruso’, per Dalla tutto era diventato possibile e plausibile. E, col senno di poi, si può  confermare che l’artista ha avuto ragione, visto il successo del brano.

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