Il fischietto termolese

L’arbitro Luca Massimi: “La prima partita? Come quando ti innamori. Ma una volta mi hanno dato tre schiaffi”

Intervista al direttore di gara di serie A. "Bello quando mi riconoscono, meno quando cercano di provocarmi. Il prossimo obiettivo è diventare internazionale"

Reduce da un Cittadella-Palermo 3-3 in cui ha fischiato tre rigori (uno revocato per fuorigioco), pronto a ripartire per fare l’Assistente Var in Pisa-Benevento, entrambe della serie cadetta di calcio. “Sto sempre in giro, mia moglie me lo dice sempre”. L’arbitro Luca Massimi da Termoli, 34 anni, cresciuto a Mafalda, è oggi uno dei fischietti emergenti in Italia: 24 presenze in serie A, il doppio in serie B, oltre a una miriade di gettoni come Quarto ufficiale, Var o Avar. Il tutto in poco più di 15 anni e con in mezzo “forse un migliaio di partite dirette. Mi piace tantissimo” racconta in una chiacchierata infrasettimanale di metà marzo nella città che di recente gli ha assegnato il premio ‘Gente di mare’.

 

Luca Massimi, ricorda la sua prima partita?

“Sì, al campo della polisportiva SS Pietro e Paolo, a Termoli, nel febbraio 2008. Avevo 19 anni. Della partita ricordo pochissimo, era SS Pietro contro non so chi, campionato dei Giovanissimi provinciali. Fu una grande emozione”.

Cosa le resta di quella partita?

“La sensazione fisica è che mi facevano male le orecchie, perché non ero abituato al suono continuo del fischietto. Poi ricordo benissimo quell’ebbrezza, quel brivido che sento ancora oggi quando usciamo dal tunnel degli spogliatoi e ci posizioniamo in campo prima di iniziare la partita. L’emozione è diversa ma il brivido è lo stesso. Poi un’altra cosa”.

Prego.

“Ha presente quando ci si innamora per la prima volta? Capii subito che era la mia passione, che era quello che volevo fare da grande”.

Comprese subito di essere all’inizio di un grande percorso?

“Non avrei mai pensato di arrivare in serie A. Però dopo le prime partite gli osservatori mi dissero che ero portato. Alla mia terza partita, a Guglionesi, venne a vedermi Carlo Scarati, che all’epoca era presidente della sezione Aia. Mi disse che se volevo togliermi qualche soddisfazione dovevo perdere un po’ di peso e in un anno dovevo arrivare in Eccellenza. Mi misi d’impegno, persi subito i chili in più e in 8-9 mesi arrivai ad arbitrare in Eccellenza. Lì ho capito che poteva succedere qualcosa”.

Ma perché iniziò a fare l’arbitro? È un calciatore mancato come tanti?

“Non ho mai giocato a calcio se non nella Juniores del Mafalda. Prima facevo judo e suonavo il pianoforte. Poi ho avuto il rifiuto per la musica e decisi di mollare il pianoforte per andare a giocare a calcio. Però a casa il fischietto l’ho sempre avuto, mio padre arbitrava nei tornei estivi a Mafalda. Il momento decisivo è stato forse a 18 anni, quando i miei amici mi regalarono fischietto e cartellini, i miei genitori una bici da corsa e i miei compagni di classe una tuta da ciclista. Dovevo scegliere fra l’arbitraggio e il ciclismo e ho scelto il primo”.

Eppure non ha iniziato prestissimo.

“No, ma devo dire grazie a Carlo Scarati, Pippo Gentile, Luca Tagarelli che mi sono stati molto dietro. Pippo e Luca venivano a vedermi a ogni singola partita per il gusto di vedermi. Grazie ai loro consigli, a quelli di Mimmo Cieri e Alessandro Petriella, sono riuscito ad accorciare i tempi e a 21 anni ero l’arbitro più giovane nelle categorie nazionali”.

Ma dica la verità, una squadra del cuore ce l’aveva, almeno da bambino?

“No, anche se sembra strano non ce l’avevo. Mio padre è del Torino e sono stato spesso a vedere il Torino da piccolo ma non ero un grande tifoso come tanti. Guardavo le partite, quello sì”.

A casa come hanno accolto la sua decisione di diventare arbitro?

“All’inizio erano scettici, si chiedevano il perché. Mamma aveva forse un po’ paura che potesse succedermi qualcosa, papà forse vedeva in me qualcosa che lui non era riuscito a fare. Però poi vennero a vedermi all’esordio e in seguito mi hanno supportato. La persona che più mi ha spronato è stato però mio nonno materno Antonio, oggi 84 anni”.

Avete un rapporto molto forte?

“Sì, lui mi ha cresciuto perché i miei genitori lavoravano. Mi ha sempre spinto a non mollare e a lavorare per raggiungere un obiettivo. All’inizio mi accompagnava lui con la macchina. Spesso dopo la partita ci fermavamo a mangiare qualcosa, era come una gita. Ho cercato di accelerare i tempi e raggiungere i miei obiettivi per far sì che i miei nonni potessero vedermi”.

Si riferisce all’esordio in serie A in quel Sampdoria-Cagliari del 24 febbraio 2019?

“Anche quello. Mio nonno Antonio due giorni prima di quella partita cadde ma non disse niente a nessuno. Aveva due costole rotte e il giorno dopo la gara venne ricoverato in ospedale”.

Un gesto di grande amore.

“Sì. Fece il viaggio in autobus visto che organizzarono un pullman pieno di amici e parenti che dal Molise arrivò fino a Genova, con roba da mangiare per tutti. A fine partita bloccarono mezza città per venire a festeggiare sotto l’albergo dove stavo, brindammo. Ricordo gli occhi dei miei nonni pieni di orgoglio. Il mio sogno era il loro e l’avevo realizzato”.

 

Nonostante i grandi traguardi raggiunti, ha mai pensato ma chi me l’ha fatto fare?

“Tante volte quando le cose nell’arbitraggio non andavano bene. Io sono molto autocritico e la ricerca della perfezione se da un lato ti fa raggiungere grandi obiettivi, dall’altro non ti fa mai accontentare e così non ti godi neanche i momenti belli. I momenti di sconforto sono stati tanti, anche adesso capita”.

Qualcuno in particolare?

“Quando non riuscii a passare subito dalla serie D alla serie C, per via della giovane età. Ma l’episodio che più mi ha segnato è stato un Chievo-Salernitana (ottobre 2020, ndr). Era la prima partita che arbitravo in quel campionato di serie B e non vidi tre rigori, di cui due grossi come una casa. Mi resi conto subito che avevo sbagliato, tant’è che chiesi scusa a fine partita a dirigenti e allenatori. Presi la valutazione più bassa possibile. Non dico che stavo con un piede a casa ma quasi”.

E come reagì?

“Quella partita ti segna, nel bene e nel male. Mi sono detto: o rischio tutto e va bene, oppure continuo a sbagliare e vado a casa. Ricordo che l’osservatore arbitrale dopo quella partita mi disse: ‘non è detto che una doccia fredda all’inizio non possa aiutarti e ti faccia scattare una molla’. E poi fu determinante mia moglie”.

In che modo?

“Lei aveva avuto un problema di salute molto serio. Così quando tornai a casa le dissi: certo che abbiamo toccato il fondo, in tutti i sensi. Ma lei non mi rispose con una frase del tipo ‘dai non preoccuparti, ti rifarai’. Mi disse invece ‘non c’è mai fine al fondo’. Capii che avrei dovuto reagire, perché nessuno mi assicurava che la volta dopo sarebbe andata meglio”.

Crede che i problemi familiari possano aver influito in quella sua brutta prestazione in campo?

“Penso di sì ma nessuno può dirlo con certezza. I fattori sono tanti”.

Come proseguì quella stagione?

“Rimasi fermo un mese e fu dura. All’inizio non dormivo, fu un periodo difficile. Quando tornai in campo non nascondo che qualche timore c’era. Però riuscii a rifarmi, e a parte forse un altro errore, andai in crescendo. Quell’anno arbitrai 4 o 5 partite di serie A, non me lo sarei aspettato”.

Le capita spesso di ripensare agli errori commessi?

“È un po’ come per gli atleti. Se le cose vanno bene sei contento, se vanno male la prima notte non dormi, la seconda così così, la terza nemmeno. Finché non torni in campo”.

Eppure arbitrare le piace.

“Tantissimo, lo farei anche gratis. Se potessi andrei ad arbitrare anche in Eccellenza. Ci sono tante pressioni e viaggiare tanto è faticoso, ma mi rendo conto di essere molto fortunato a fare ciò che faccio”.

Ma è più difficile dirigere in un campionato regionale senza assistenti e col pubblico che urla di tutto o in serie A con lo stadio pieno e tutta Italia pronta a giudicarla?

“È difficile in entrambi i casi. In serie A ci sono tante pressioni, la risonanza è enorme ed è tutto più veloce. Paradossalmente però riconoscere un fallo è più facile perché il gesto tecnico è più pulito. Io correvo più in Eccellenza che in serie B, perché nelle categorie inferiori non sai dove può andare il pallone, sono rilanci continui, mentre tra i professionisti il gioco è più manovrato”.

Però è difficile anche arbitrare in un campionato regionale.

“Nei campi di periferia sei solo contro tutti e non puoi vedere tutto. In più rischi le botte”.

Le è mai successo?

“Sì, in un Rio Vivo-Difesa Grande che si giocava a Porticone. Un calciatore che avevo appena espulso venne per stringermi la mano e invece mi tirò tre schiaffi. Io continuai la partita, sbagliando. A fine gara lui e suo padre, che faceva il dirigente, vennero a testa bassa a chiedermi scusa pregandomi di non scrivere nulla nel referto. Chiaramente non potevo farlo e lui si prese una lunga squalifica. Per mesi continuò a minacciarmi anche sul Corso”.

In che modo?

“Mi diceva che mi avrebbe picchiato ma non ho mai avuto paura che potesse farlo. E poi sono cose che avevo messo in conto quando ho scelto di fare l’arbitro”.

Anche le minacce?

“Sì, purtroppo questa è la società di oggi. Chiunque si trovi a prendere una decisione pubblicamente viene messo alla gogna per qualsiasi cosa”.

Ha subito anche pressioni durante la sua carriera?

“Non è mai capitato che qualcuno mi chiedesse di favorire questo o quello, assolutamente no”.

Legge mai i giudizi che le danno i giornali e i siti?

“Preferisco di no. Non ho mai acquistato giornali e se qualcuno mi manda dei link coi giudizi sugli arbitri non li apro nemmeno, non mi interessa. Apro solo la relazione dell’osservatore arbitrale ma so già io cosa e dove ho sbagliato”.

Lei che tipo di arbitro è nella preparazione? Vuole sapere tutto dei giocatori o è più istintivo?

“Per come sono fatto io, non mi serve sapere se uno è destro o sinistro. Mi fido più dell’istinto. Vado però a cercare informazioni che possono essermi utili su come si comporta una squadra in campo, magari se attacca più da un lato o dall’altro. Però non posso decidere prima, e in campo bastano due minuti per capire se quelle informazioni possono servire”.

Col Var è più facile arbitrare?

“Col Var sei più sereno in campo, è un gigantesco paracadute e ti consente di non intaccare il risultato se sbagli. Allo stesso tempo non puoi nasconderti dietro il Var, devi sempre decidere. Anche se il Var ti corregge, per te resta un errore”.

C’è qualcosa che cambierebbe del rapporto arbitri-calciatori?

“Servirebbe più umanità e più serenità. All’inizio andavo allo scontro coi calciatori, li vedevo come potenziali nemici. Poi mi sono reso conto che viviamo nello stesso mondo e le pressioni che abbiamo noi le hanno anche loro. Così ora cerco di instaurare un rapporto di fiducia con loro perché quello dell’arbitro è un servizio e per offrire il servizio migliore c’è bisogno della collaborazione dei calciatori”.

 

C’è uno stadio che le ha dato sensazioni particolari?

“Ce ne sono tanti. Il Marassi di Genova ti sembra sempre molto stretto, ti fa sentire scomodo e il tifo si sente tantissimo. Poi San Siro, col terzo anello che ti impedisce di vedere il cielo. Al mio esordio a San Siro nei primi 5 minuti mi sentivo come ovattato. A livello di pubblico quest’anno l’Olimpico di Roma pieno alla prima partita era da brividi”.

Che obiettivo si è posto per il proseguimento della sua carriera?

“Vorrei diventare internazionale, arbitrare partite di Champions League e delle Nazionali e mi sto applicando per arrivarci. All’estero finora ho fatto il Quarto ufficiale in diverse partite e ho arbitrato a Cipro, dove chiamano arbitri italiani per le partite più importanti”.

Che esperienza è stata?

“Sembrava di stare in territorio di guerra, ho dovuto interrompere la partita 3 o 4 volte. Là rivivi un po’ quel calcio di una volta senza regole”.

Ha avuto paura?

“Al contrario, è stato favoloso, mi ha dato una adrenalina pazzesca, avrei voluto arbitrane un’altra. Sa una cosa? Io ho un modo particolare di concentrarmi”.

E qual è?

“Il ritmo dei tamburi allo stadio”.

Quindi con gli stadi vuoti della prima fase del Covid per lei deve essere stata dura.

“Li odiavo, è stato il periodo peggiore”.

In quel Chievo-Salernitana lo stadio era vuoto?

“Esatto. Forse può aver influito”.

Che consiglio darebbe a un ragazzo o una ragazza che vogliono fare l’arbitro?

“Che innanzitutto fare l’arbitro è una grande palestra di vita. Se oggi sono quello che sono è grazie all’arbitraggio. Da ragazzino ti trovi a dover decidere davanti a 50 adulti e questo ti insegna non solo a tirare fuori il carattere e a reagire, ma ti dà anche rispetto e amicizia. Questo non per arrivare in serie A, ma in generale nella vita. A me ad esempio ha dato una marcia in più nelle esperienze lavorative, è come una corsia preferenziale. Ma anche nella vita privata”.

Si spieghi meglio.

“Se non avessi fatto l’arbitro, abituato a trovare subito una soluzione, forse i problemi di salute affrontati a casa mi avrebbero abbattuto e avrei subìto la vicenda. Invece con mia moglie cerchiamo subito di affrontare il problema”.

Sua moglie ha avuto un ruolo essenziale nella sua carriera?

“Ci siamo messi insieme a 19 anni, io avevo appena iniziato. Una sera per scherzo lei mi dice ‘sposiamoci’. Io non ne avevo nessuna voglia all’epoca, ma le dissi: ti prometto che se arrivo in serie B, ti sposo. Ci sono arrivato e ho mantenuto la promessa. Emanuela mi ha aiutato tanto, mi dà sempre una chiave di lettura diversa, mi prende in giro, mi dice che sono scarso. Riesce a farmi distrarre. Poi è chiaro che nei momenti brutti si soffre insieme. Oggi siamo in tre, il piccolo Gabriele ha 16 mesi”.

A Termoli è ormai un volto noto. Che effetto fa essere riconosciuti?

“Da una parte fa piacere, perché è come riconoscere che qualcosina di straordinario in un contesto ordinario l’ho fatto. Dall’altra ci sono momenti più sgradevoli, come quando qualcuno cerca di provocarmi o mi contatta dopo anni solo per avere una maglietta o qualcosa in cambio”.

Dicerie sulla sua carriera ne ha sentite?

“Tante volte ho sentito dire che sono raccomandato, oppure che ho pagato per arrivare fin lì. Di fatica e di sudore, quelli sì. A Mafalda le persone che stavano davanti al bar quando io correvo col sole e con la pioggia da ragazzino, stanno ancora davanti al bar. Prima mi dicevano ‘chi te lo fa fare’, oggi dicono ‘beato te’. Purtroppo in Italia se non si arriva a qualcosa, la colpa è sempre di qualcun altro”.

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