Il commento

Aspettando il Pd

L’urgenza di compiere il proprio dovere spesso deriva da una sollecitazione esterna, piuttosto che da una riflessione interna al proprio foro morale. Quando si è incalzati è più facile reagire. La parola ci giunge dal latino, come declinazione di calx, il calcagno. Si è incalzati quando qualcuno ci sta dietro e ci spinge, ci pressa. A quella sollecitazione urge una risposta. Un passo più celere, più lesto. Una reazione.

Al calcagno del PD evidentemente non c’è più nessuno. Non l’elettorato, via via sempre più esiguo. Non la maggioranza del paese reale disaffezionato ai riti democratici ritenuti anacronistici. Pressato da urgenze, queste sì incalzanti: il caro bolletta, l’inflazione, la recessione, la guerra, la ricerca della pace (non necessariamente giusta e scelta degli ucraini). L’urgenza è dunque altrove. Non al Nazareno. Il passo perciò può restare lento. E peripatetico si conferma l’atteggiamento dei democratici. Il partito guidato dal dimissionario Enrico Letta non ha saputo decidere cosa essere e come definirsi prima delle elezioni. Un partito riformista o una forza connotata dai principi di una attardata socialdemocrazia europea. E non intende decidere neanche nei prossimi giorni o nel futuro immediato. A causa di quell’incertezza di posizione, irrisolta, ha visto eroso alle ultime elezioni politiche di settembre il consenso dalle forze politiche alla propria destra e alla propria sinistra. Da un lato da chi, come il Terzo Polo, in contrapposizione alla destra, quella vera, ha proposto un’identità, almeno sulla carta, di principi liberali e riformisti. Dall’altro ha lasciato sul campo molti punti percentuali alla forza populista guidata da Giuseppe Conte, che sulla conquista dei temi sociali e di tutela dei bisogni delle categorie più deboli del Paese (sud e disoccupati) ha ridefinito utilitaristicamente l’identità del M5S.

All’immobilismo pre-elettorale, nonostante la sonora sconfitta, è seguita una reazione da bradipo. I tempi del congresso sono stati definiti con un appuntamento lontano quasi 180 giorni dal voto: il 12 marzo del 2023. In questo lasso di tempo il PD vuole rifondare se stesso. Dare spazio e tempo alle sue anime di confrontarsi per definire l’identità futura del partito. Il congresso del prossimo marzo ha l’ambizione di essere “costituente”. Eppure ancora una volta il metodo appare farlocco. Entro il 22 gennaio va scritto il nuovo manifesto dei valori e dei principi e solo dopo sarà aperta la sfida fra i due contendenti più rappresentativi alle primarie. Lo scontro dialogico fra visioni opposte sul futuro del PD, non solo è rimandato, ma è anche annacquato da una procedura che ne depotenzia la vis ideale, consentendo di partecipare con il voto a chiunque si registri entro il giorno prima del voto. La composizione della nuova visione sarà elaborata da una processo frutto dell’equilibrio delle correnti e delle scelte dei “nuovi costituenti” confezionate dall’attuale segretario e non dalla rappresentazione di idee realmente contrapposte proposte dagli aspiranti segretari. Nel tentativo di voler tenere tutti dentro, di voler lasciare largo il perimetro della rappresentanza degli interessi difesi, il PD prosegue nel processo di restringimento della propria forza elettorale, consegnando sia i temi, sia la capacità di una reale rappresentanza alle altre due principali forze politiche all’opposizione del governo Meloni.

La velocità della contemporaneità a volte restringe lo spazio della riflessione, comprime i tempi per l’espletamento dei metodi democratici capaci di dare voce ai propri iscritti e a tutte le istanze che compongono i partiti. Del resto non solo le forze politiche ancora legate a questi processi interni di definizione delle scelte, ma anche la democrazia liberale vive una crisi rispetto allo sfasamento temporale fra il compiersi di un evento e la necessaria risposta attraverso il conseguente atto decisionale. La politica ha la necessità di dare risposte sempre più immediate rispetto alle sollecitazione che giungono dagli eventi continui della cronaca geopolitica che si fa subito Storia. Velocità nella reazione, ascolto ma autonomia nella decisione attraverso l’assunzione personale della responsabilità della scelta per nome e per conto della propria comunità. Queste possiamo riconoscerle come due delle molte doti necessarie per esercitare la leadership. Ma il PD, dopo l’esperienza della segreteria Renzi, ha avuto un rigetto violento di questa forma di gestione del partito e del potere. Il PD non è stato immaginato per essere guidato da un “capo”. La sua idealità costitutiva è nella cogestione del potere da parte di tutte le sue anime. O correnti, per i più mondani. L’atto decisionale non può essere preso nella segreteria, ma in un luogo altro. Con felice metafora quel luogo è stato definito come “caminetto”, per sottolineare la familiarità conviviale del gruppo di persone chiamato a decidere in vece di chi occupava pro-tempore la carica formale di guida del partito. Oggi nel percorso indicato dal Letta il luogo di sintesi sarà un caminetto 2.0, chiamato a redigere il Manifesto dei valori, che anticipa e depotenzia lo scontro ideale tra le visioni opposte di chi vuole guidare il partito. I partecipanti alla stesura li sceglierà lo stesso Letta in sintonia con tutte le anime del PD e anche quelle che ne sono uscite ai tempi del segretario fiorentino (Bersani, Speranza). Chiunque vincerà le primarie del 12 marzo sarà ancora una volta dunque un mero portavoce di una somma di interessi e non il leader scelto da una comunità.

Il PD, in quindici anni di vita ha eletto, mangiato e digerito dieci segretari (Veltroni, Franceschini, Bersani, Epifani, Renzi, Orfini, Renzi, Martina, Zingaretti, Letta) e si appresta a sceglierne l’undicesimo. Resta l’ultimo partito italiano senza un vero leader e non sembra abbia intenzione di dotarsene. La destra è Giorgia Meloni. La Lega, nonostante la sconfitta elettorale, è Matteo Salvini. Forza Italia, nonostante l’età e grazie ai soldi, è Silvio Berlusconi. Il M5S, dopo essere stato di Grillo, è oggi Giuseppe Conte. Il Terzo Polo vive la diarchia di due leader minori, senza i quali però non esisterebbe: Calenda e Renzi. Il Partito Democratico di Letta appare dunque dentro una scena del teatro Beckettiano. Appare desideroso di muoversi verso l’emulazione delle altre forze politiche, alla ricerca di un nuovo volto che incarni la stagione dell’opposizione e del rilancio. Ma in realtà appare incapace di compiere un passo decisivo e concreto verso la piena delega. Una comunità in attesa di qualcuno di nuovo da investire del ruolo di uomo o donna della salvezza, ma allo stesso tempo è consapevole che nessuno potrà giungerà mai a salvarla, perché nessuno potrà mai rivestire compiutamente quel ruolo. Perché conscia che non esiste demiurgo capace di ridefinire la sua identità.

Per queste ragioni la scommessa di prendersi tutto questo tempo per esercitare un metodo vuoto per la scelta di una vera leadership appare ancora di più un azzardo. Nei prossimi mesi la prima forza di opposizione in Parlamento sarà afona di una vera guida, sospesa nella definizione di una, alla fine dei conti, incerta nuova identità. Quello che Letta non ha considerato come conseguenza della sua indecisione estiva e del suo temporeggiare autunnale è il rischio di lasciare il Paese dentro una dialettica governo-opposizione assorbita da sole forze sovraniste e populiste. In questi sei mesi il PD rischia di subire il sorpasso nei sondaggi da parte del M5S. Sarà debole nella gestione delle alleanze in vista delle prossime elezioni regionali (Lombardia, Lazio, Friuli-Venezia Giulia e Molise) o cedendo in Lazio e Molise a candidati scelti dal M5S o replicando lo schema frammentato del campo della sinistra che ha spalancato il governo nazionale alle destre. In definitiva correrà il rischio nel limbo della sua rifondazione di vedere pezzi di classe dirigente e di elettorato staccarsi ed essere assorbiti da una leadership, quella di Conte, che del riformismo e dei principi liberali non sa cosa farsene. E anche quei pochi che dentro il partito ancora credono nel riformismo e nei principi liberali potrebbero preferire cercare altrove nuove collocazioni.

Dopo la stagione dell’Ulivo il PD si presentò all’elettorato come la casa del progressismo e del riformismo italiano. Il partito della vocazione maggioritaria. Pochi nel partito hanno nostalgia delle promesse presenti nel discorso di Walter Veltroni al Lingotto nel 2007. Quelle promesse sono andate tradite. Dispersi i voti di milioni di italiani che a quella offerta politica diedero fiducia nonostante la sconfitta elettorale della primavera successiva. Il PD in questi 15 anni si è dimostrato essere più il luogo comodo dove i reduci delle due religioni politiche più auguste della prima Repubblica, DC e PCI, si sono ritrovati per proseguire a gestire il potere, che non la casa dei nuovi progressisti e riformisti italiani. In un modo o nell’altro il PD ha gestito il potere dal 2011 in avanti, senza aver davvero mai vinto una sola elezione politica: sconfitto da Berlusconi nel 2008, ma dal 2011 in maggioranza con il sostegno al governo Monti; la non vittoria di Bersani del 2013 generò comunque i governi di larga coalizione guidati da Letta, Renzi e Gentiloni; la clamorosa sconfitta nel 2018, che non impedì di andare al governo sostenendo i governi Conte II e Draghi. Ora, senza il collante del potere, il PD potrebbe ritrovarsi impedito a difendere la propria originaria costituency, ovvero il gruppo omogeneo di interessi al quale ha sempre garantito rappresentanza.

E così mentre la destra di Giorgia Meloni è a palazzo Chigi già intenta a definire la sua visione identitaria della Nazione, i populisti di Giuseppe Conte sono sugli scranni del Parlamento a svolgere il ruolo di opposizione intransigente per raccogliere il consenso del popolo della sinistra e i riformisti di Renzi e Calenda si candidano a svolgere un ruolo di sponda della maggioranza per riscrivere con essa le regole del gioco costituzionale, il PD si appresta al suo lento rito democratico.

Napoleone diceva “Vado piano, che ho fretta”. Il Pd emula l’imperatore francese, aspettando con poca convinzione il suo Godot, consapevole di vivere presto la sua Waterloo.

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