L'analisi

Vincitori e sconfitti del 25 settembre

Avremo un governo politico. Provvisto di una solida maggioranza numerica in entrambe le camere. Scelto dagli elettori. Pochi in verità, solo il 64% degli aventi diritto. Che gli italiani sapessero con chiarezza chi avrebbe guidato il governo la sera dello spoglio elettorale non accadeva dal 2008. Quando il centrodestra di Silvio Berlusconi, redivivo anche in questa occasione, vinse in modo così perentorio da consentirgli di presentarsi dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con la lista dei ministri del suo governo già pronta e di accettare l’incarico senza riserva, mutando per una sola volta nella storia repubblicana una prassi costituzionale consolidata.

Quattordici anni dopo, attraversata una crisi economica, una pandemia, una crisi militare alle porte di casa e guidati da due governi tecnici (Monti e Draghi) e diversi governi di coabitazione frutto di maggioranze che mettevano insieme forze politiche che si erano presentate come avversarie alle elezioni (i governi Letta, Renzi, Gentiloni, Conte I, Conte II), gli italiani hanno scelto di affidare la guida del Paese ad una donna, leader di un partito che che come leggiamo sui titoli del giornali esteri è di “estrema destra”, erede di una storia politica che si lega nonostante le timide abiure alla storia del fascismo italiano.

Ma analizziamo velocemente i protagonisti di questo voto.

Giorgia Meloni
Mattarella la chiamerà per conferirle l’incarico di formare il nuovo governo e lei si dirà “pronta”. Ha scelto di attraversare il deserto dell’opposizione in questi 14 lunghi anni da quando lasciò il ministero della Gioventù, giovane ministra del governo Berlusconi. Oggi raccoglie il risultato di uno scontento popolare crescente. Gli italiani delusi da tutte le altre offerte politiche, che in un modo o nell’altro e con differenti gradienti di responsabilità, in questi anni hanno avuto ruoli di governo. Ora tocca a lei guidare il Paese, forte di un risultato senza precedenti per la destra in Italia: da meno del 4% a oltre il 26% nel giro di 4 anni. E scopriremo se il suo vero volto è quello rassicurante dei salotti europei o quello cattivo dei palchi elettorali. La pacchia è finita, anche per lei. Ora è il momento della responsabilità.

Matteo Salvini
Credo che sia finita una stagione. Quella della Lega forza politica nazionale. Di una Lega capace di cavalcare le paure di un paese impoverito e incattivito, così da divenire riferimento per tutto l’elettorato di centrodestra del Paese. Al sud viene totalmente ridimensionata. Al nord non è più punto di riferimento per i ceti produttivi e popolari. Ha sbagliato i messaggi (immigrazione, nucleare, leva obbligatoria, vicinanza a Putin). Grazie ai collegi uninominali avrà comunque più parlamentari rispetto al solo dato proporzionale che lo vede sotto la soglia psicologica del 10%. Ma non basterà questo per evitare una riflessione sul futuro ruolo del partito inventato da Umberto Bossi e fatto esplodere per troppa hybris dal suo Capitano una mattina dell’agosto 2019 al Papete.

Berlusconi
Lo ha fatto di nuovo. Il suo personale miracolo italiano. Ha preso gli stessi voti della Lega. Sarà decisivo per garantire una maggioranza stabile al nuovo governo. A 86 anni ha dimostrato che in comunicazione il concetto della ridondanza (dire sempre le stesse cose per raggiungere fino all’ultimo elettore/consumatore) è fondamentale. Rientrare al Senato dopo l’onta dell’estromissione a causa della legge Severino era il suo cruccio per non finire la sua vita politica fuori dal Parlamento. Ci tornerà accompagnato dall’onorevole Fascina.

Letta
Sul suo manifesto elettorale si leggeva “PD scegli”, non scegli PD. Era come sempre una comunicazione rivolta al partito e non al Paese. Il PD non ha scelto cosa essere, quale identità offrire all’elettorato. Gli italiani hanno così scelto alla fine di non bocciare la sua proposta di comunicazione fra rosso e nero. Peccato per lui che abbiano scelto il nero della Meloni. Ha polarizzato il voto, ma sul colore sbagliato. Dopo il suo ritorno da Parigi ha scommesso tutto sull’alleanza con Conte e sull’idea apolitica del Campo largo e il sostegno al governo Draghi. Conte ha tradito Draghi e lui si è trovato scoperto sia a destra (Calenda/Renzi), sia a sinistra (M5S). Il Campo largo è diventata una “Via stretta”. Il PD è sotto il 20%, dato come quello di Renzi del 2018, ma con molti meno voti considerata l’alta astensione. Ora il PD deve davvero scegliere la sua identità: partito riformista o populista? Senza scelta la dissoluzione.

Conte
Ok l’azzardo è giusto. Ha sfasciato il governo Draghi che non ha mai amato perché aveva il doppio torto di averlo estromesso da Palazzo Chigi e di aver dimostrato la differenza di qualità fra le due esperienze di governo. Ha scelto la via più drammatica per il Paese e per l’area progressista: far saltare il banco per uscire dall’angolo nel quale era finito il M5S, sacrificando la possibilità di vittoria elettorale insieme al PD contro le destre, pur di restare alla guida di un partito capace di andare oltre il 10%. Ha scelto di trasformarsi da avvocato del popolo a tribuno delle folle dei diseredati del Sud. Il reddito di cittadinanza, proposte pauperistiche e la parola gratuità sono state le sua armi, soprattutto sui social, per convincere gli elettori a votare ancora M5S. Nonostante il tracollo di voti dal 33% al 15,5% rispetto al 2018 ottiene una vittoria personale che gli consente di chiudere la stagione del grillismo e di avere un partito tutto a sua immagine e somiglianza. Casalino docet.

Calenda e Renzi
Il Terzo Polo è arrivato quarto. Non tanto il mancato raggiungimento del fatidico 10% segna la sconfitta del progetto riformista Calenda, quando l’incapacità di drenare voti da Forza Italia che resta il partito decisivo per dare una solida maggioranza parlamentare alla Meloni. L’agenda Draghi non esiste senza Draghi. Gli italiani lo sanno bene. Eppure il Terzo Polo occupa uno spazio politico che resta indispensabile per offrire riforme serie al Paese. Ma il riformismo senza la leva del governo è il luogo della frustrazione. Quella che certamente non affligge Renzi, il quale è salito sul tram di Calenda per tornare in parlamento con i suo 6/7 amici, cosa che a luglio sembrava pura utopia.

Tabacci e Di Maio
Che grande romanzo si potrebbe scrivere sulla giovane vita di Luigi Di Maio che entra nella scena per scardinare la politica nazionale intonando il “vaffa” grillino contro i vecchi tromboni democristiani e alla fine della sua carriera viene trombato con la doppia onta di essere considerato dal suo elettorato l’emblema della vecchia politica, mentre il suo amico di avventura elettorale, l’inossidabile Bruno Tabacci, risulta essere l’unico eletto del loro movimento politico. Eterogenesi dei fini.

Lotito e Cesa
Paracaduti&Contenti. I due amici romani si sono divertiti in questi 25 giorni di campagna elettorale tra scoponi scientifici, balli politicamente scorretti e anacronistici, partite a calcio balilla e tiri ai palloncini. La politica era altrove. E il 45% dei molisani rimasti a casa lo sanno bene.

Costanzo Della Porta
La coerenza paga. Da militante del Fronte della Gioventù a Senatore della Repubblica. Il vento era forte per Fratelli d’Italia. Protetto sotto l’ala della sua leader che lo ha scelto personalmente per garantirsi una milizia di senatori a prova di tradimento, il sindaco del piccolo borgo del basso Molise ha ora il compito di rappresentare un’intera Regione. Il dramma della malasanità vissuto da Sindaco e la conoscenza dei dossier del nucleo industriale della Valle del Biferno, di cui è vicepresidente, dove sorgerà la Gigafactory di Stellantis, possono essere la sua leva politica per non fare solo il peones a Roma, ma incidere sulle politiche industriali e sul diritto alla salute dei molisani.

Facciolla&Fanelli
Il PD nazionale ha fallito. Quello molisano non ha fatto di meglio. Superati ancora una volta dal M5S, incapaci di portare a Roma un solo deputato. Sconfitti dai numeri, che al di là delle percentuali a livello assoluto segnano il punto più basso del consenso elettorale del partito. Ora è davvero dura poter pretendere la primogenitura della candidatura a presidente del centrosinistra o del rigenerato campo largo con il M5S per le prossime regionali. Eppure quel popolo di astenuti esiste e va trovato il modo di offrire loro una nuova speranza. Ma occorrono volti e metodi nuovi.

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