L'intervista

Dalla pandemia al cambiamento climatico, il sociologo: “Indietro non si torna, ma dobbiamo recuperare il senso del limite”

La scuola territorialista è un progetto pensato dal famoso urbanista Alberto Magnaghi che per primo ebbe l’intuizione di studiare il territorio attraverso una lettura multidisciplinare, osservandolo come in un prisma le cui sfaccettature corrispondono a varie discipline: urbanistica, sociologia, antropologia, storia, geografia, ecologia archeologia, scienze politiche, scienze agroforestali. Alla Società dei territorialisti e delle territorialiste appartiene il professor Marco Giovagnoli, da una dozzina di anni docente di scienze turistiche e sociologia dell’ambiente all‘Università di Termoli, dove condivide l’interesse per il territorialismo con altri prof dell’Unimol come Rossano Pazzagli e Luciano De Bonis.

Marco Giovagnoli, anconetano, è titolare di cattedra all’Università di Camerino dove insegna Sociologia dei Processi Economici e del Lavoro e Storia e Cultura dell’Alimentazione. Esperto di territorio, non può non notare come “la strategia nazionale per il recupero delle aree interne non ha portato ancora ai risultati sperati” e siamo di fronte a “numeri demografici critici per il mantenimento dei servizi essenziali”, a cominciare dai presidi ospedalieri per finire alle poste, alle stazioni ferroviarie, alle farmacie e alle scuole. I molisani, che per definizione vivono il fenomeno dello spopolamento, conoscono questi fenomeni fin troppo bene. Così come sperimentano sulla loro pelle, e con sempre maggiore frequenza, il timore di non riuscire a raggiungere in tempo l’ospedale più vicino in caso di malore.

“E’ una sensazione che la pandemia in atto ha aggravato sicuramente” dice il sociologo Marco Giovagnoli. “La distruzione dei servizi di prossimità ha contribuito ad accentrare i servizi nei grandi centri urbani, ma le condizioni da qui ai prossimi decenni saranno tali che non possiamo più permetterci le grandi concentrazioni”.

L’emergenza innescata dal virus che porta alla malattia del covid-19 ha favorito secondo lei il desiderio di maggiori spazi e minore sovraffollamento oppure, al contrario, ci ha definitivamente convinto di non poter vivere senza i servizi a portata di mano?

“Ho l’impressione che il desiderio di spazi maggiori e luoghi in antitesi con il concetto metropolitano abbiano avuto un ruolo nella prima ondata, che è stata segnata da una maggiore emotività. In quell’occasione abbiamo visto frotte di podisti, ciclisti, di proprietari di cani che non erano mai usciti magari prima di quel momento, abbiamo assistito all’assalto di luoghi di vacanza che non erano mai stati centrali. Ma è stata una risposta emotiva, appunto”.

Poi, da un punto di vista sociologico, cosa è accaduto?

“Le conseguenze sociali della pandemia hanno impattato su alcuni aspetti ai quali non facciamo nemmeno troppo caso ma che sono delle conquiste recenti, alle quali siamo profondamente abituati. Non eravamo pronti a essere privati all’improvviso di queste conquiste che noi percepiamo come un diritto acquisito. Penso alla mobilità, alla possibilità di spostarsi liberamente. È talmente bella questa cosa che nel momento in cui ci è stato detto non fatelo è come se ci fosse stato sottratto una sorta di diritto naturale. Non è un caso se le battaglie fatte durante la pandemia hanno riguardato l’aperitivo delle 19 oppure la corsa giornaliera, cose apparentemente superflue che però sono state riscoperte perché percepite in fondo come un nostro diritto. Non poter andare al ristorante, non poter prendere l’aereo, non poter incontrare le persone, vedere gli amici, non poter risolvere il tuo problema di salute nel momento in cui si propone perché tutto è stato ristretto a una emergenza che è un collo di bottiglia, visto che sistemi sanitari sono stati devastati negli ultimi 10 anni, è stata una rivelazione”.

E ora? Adesso che in qualche modo stiamo rientrando in una sorta di normalità che succede?

“Tutto sta tornando per l’appunto in una sorta di percorso di normalità finalizzato a riportarci al Punto Zero. Questa voglia di tornare alla normalità non è censurabile e anzi è assolutamente comprensibile. Ma tutti gli sforzi, i malumori, le sollevazioni, le rivolte popolari, le manifestazioni di quanti pensano di essere stati privati della libertà vogliono riportare l’orologio all’ora Zero. Questo ragionamento lo si capisce ancora di più se parliamo di cambiamento climatico, perché se noi fossimo veramente allarmati da quello che sta accadendo non avremmo voglia di normalità ma avremmo voglia di eccezionalità, di riconsiderare anche le nostre abitudini”.

Professore, lei ritiene che il cambiamento climatico sia una questione addirittura prioritaria rispetto alla pandemia?

“Indubbiamente, è una questione centrale. Inoltre la pandemia è qualcosa sulla quale si riesce a mettere mano mentre il cambiamento climatico, se parte, porta dritto alla fine dell’era dell’antropocene. Ci sono però molte analogie tra due cose, a cominciare dal fatto che sia l’una che l’altro mettono in discussione le cose belle che noi abbiamo conquistato, quelle conquiste per le quali hanno combattuto i nostri genitori, i nostri nonni, che noi diamo come diritti acquisiti”.

prof sociologia marco giovagnoli

Per esempio?

“La mobilità, poter andare ovunque e in qualsiasi momento. Poter accedere al cibo indipendentemente da tutto, pretendere un certo modo di mangiare, di vestirsi. Abbiamo la digitalizzazione dalla quale non si torna indietro che pure incide moltissimo sul cambiamento climatico e si inserisce in una società dei consumi nella quale il telefonino mette in moto un meccanismo per cui tutto quello che vogliamo ci arriva a casa ed è tutto quello che abbiamo sempre desiderato. Il problema serio è questo, ci sono alcune conquiste rispetto alle quali è davvero complicato tornare indietro”.

Ma se nemmeno rispetto a una pandemia che per definizione è transitoria e capace di minare alla radice il diritto primario alla vita, mettendoci di fronte alla possibilità di ammalarci e morire, abbiamo modificato i nostri desideri, visto che ha appena detto che non vediamo l’ora di tornare al punto zero, perché dovremmo riuscirci rispetto alla minaccia di un cambiamento climatico che è molto più indefinito?

“Questo è il motivo di maggiore preoccupazione. A noi sfuggono alcuni nessi causali, noi abbiamo difficoltà a percepire il mutamento perché siamo soggetti all’immediato, abbiamo un orientamento al presente e facciamo fatica a mettere insieme pezzi apparentemente distanti. Già 20 anni fa la comunità scientifica non aveva dubbi sul fatto che ci fossero processi in atto irreversibili, eppure l’opinione pubblica – penso per esempio agli Stati Uniti – si è spaccata a metà. Una parte crede nel cambiamento climatico e una parte non ci crede. La scienza, e lo abbiamo visto anche con quanto accaduto per via del covid, è messa in discussione. C’è un chiaro, evidente problema di comunicazione”.

Come dire, crediamo nel cambiamento climatico come possiamo credere in Dio o negli Ufo?

“In un certo senso è così. Il problema si pone nel momento in cui le evidenze scientifiche, che oggi inoltre sono ancora più precise di 20 anni fa, stridono fortemente con il dibattito ancora diviso fra chi crede nel cambiamento climatico e chi non ci crede, come se fosse un aspetto religioso, fideistico e non suffragato da niente se non dalla propria volontà interna. Da questo punto di vista dico che credere nel cambiamento climatico è un po’ come quelli che dicono di credere nella pandemia o nei vaccini: abbiamo trasferito questa terminologia fideistica dentro una linea marcatamente scientifica”.

Abbiamo bisogno di qualcuno che ci dica cosa fare e cosa non fare col cambiamento climatico come è successo con la pandemia?

“I comportamenti indotti dalla coercizione o dal meccanismo della ricompensa possono avere risultati nell’immediato, ma hanno grossi rischio sul medio periodo. Se io non faccio una cosa perché vengo multato o ne faccio un’altra perché ho un vantaggio materiale, è estremamente improbabile che io abbia interiorizzato le motivazioni di un dato comportamento”.

Un esempio è la mobilità. Molta gente ha acquistato auto a metano spinta dagli incentivi anti-inquinamento, ma ora che il metano è aumentato vertiginosamente c’è una sorta di pentimento collettivo.

“Esatto. E’ evidente che nel momento in cui io compro un’auto a metano e poi il metano raddoppia come prezzo mi conviene andare a diesel. Questo è un fatto. Ma l’esempio migliore è quello dell’alimentazione, un tema sul quale ci sono alcune osservazioni interessanti”.

Quali?

“Man mano che aumentano i livelli di vita delle persone, il reddito, lo stile di vita eccetera, i percorsi alimentari cambiano e di solito cambiano verso alimenti che sono a grande impatto ambientale, in modo particolare la carne che è sempre stato un oggetto del desiderio, come ci conferma il fatto che l’astinenza dalla carne rappresenta una prova di forza e fedeltà, di sottomissione e ubbidienza. Pensiamo al venerdì santo o al mercoledì delle ceneri, giorni in cui la cultura cristiana impone la rinuncia della carne, che è una grande conquista ma rappresenta anche un grande problema. Il suo consumo a livello globale non è sostenibile, le modalità produttive sono insostenibili dal punto di vista ambientale, etico, organizzativo, di trasporto. Logica vorrebbe che si mettesse mano a questa faccenda, ma come si fa a dire a una persona che è sfuggita dal circolo vizioso della povertà e delle privazioni, che ha sempre visto gli altri che mangiavano meglio e vivevano di più, non mangiare carne?”.

Appunto, come si fa?

“Bisogna arrivare a un livello di consapevolezza che renda anche la rinuncia una conquista. La carne è certamente una conquista sociale, ma ha un impatto devastante sui sistemi complessivi, con catene causali molto lunghe, utilizzo spropositato di acqua, deforestazioni, gestione della produzione industriale, catena dei trasporti, catena di movimentazione e di conservazione come quella del freddo. Tutti fattori che incidono negativamente su un pianeta che amiamo, su un paesaggio che sentiamo ci appartiene, specialmente per la relazione con gli animali che lo abitano insieme con noi. Dunque immagino che il gradino successivo, mettendo insieme tutte queste osservazioni, sia quello di dire a noi stessi che è arrivato il momento di tirare un po’ il freno, e di vedere questa cosa come una conquista generale”.

In pratica le limitazioni diventano un traguardo?

“In un certo senso è così, dovremmo riconsiderare l’elemento del limite, metterci dentro un sistema di regole in cui il limite è un concetto centrale. Per esempio io posso pensare di mangiare meno carne, di non accedere a cibi che arrivano da lontano e che comportano spostamenti e catene oltremodo impattanti, posso rifiutarmi di assecondare certe mode devastanti come il sushi col tonno rosso perché non c’è alcun motivo al mondo di sterminare i tonni rossi per fare contenti gli occidentali. Non vogliamo rinunciare alla carne, ma nemmeno vogliamo rinunciare a un mondo che ci piace, che ci ha dato la possibilità di acquisire competenze e saperi e piaceri. Allora inseriamo nella nostra grammatica quotidiana il senso del limite. In fondo è un concetto che le generazioni che ci hanno preceduto avevano bene in mente. Sembra utopistico ma è l’unica via di uscita”.

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