“Stetv a la casa” . Fu questa una delle frasi iconiche dello stile comunicativo diretto ed efficace di Gino Di Bartolomeo.
Memorabile anche il suo fare sornione mentre sbirciava, seduto al Bar Centrale davanti ad un caffe, i “suoi” cittadini a passeggio lungo Corso Vittorio Emanuele nelle prime calde giornate di primavera, lui che amava contemplare la bellezza della sua città.
Indimenticabile mentre si dilungava in lunghe chiacchierate con amici e “nemici” (politici) al rituale del caffe al bar Gildo in via XXIV Maggio e ripeteva a chi contestava mancati lavori su Campobasso: “Qua ze frjie che l’acqua”. Poi trasformata in “Non ci sono soldi neanche per un gelato”.
Lui, Gino, nato e vissuto nel cuore del Cep, del dialetto del posto aveva fatto la sua arma vincente.
Frugando negli scatoloni dei ricordi, i tanti ricordi che legano la comunità di Campobasso a Big Gino, non si trovano momenti dimenticati. Lui è rimasto – anche quando è uscito recentemente dalla scena politica – una figura storica della politica molisana e della vita cittadina del capoluogo.
Erano gli anni da sindaco e poi quelli da consigliere comunale di minoranza, gli stessi in cui le televisioni e i giornali mandavano a ripetizione le sue esternazioni contro gli avversari politici del momento che lo avevano “abbandonato”, memorabile fu l’intervista in cui riferendosi all’allora assessore regionale Angela Fusco Perrella la chiamò “Angiolina Jolie” con la sua solita, amabile, ironia. Oppure quando sui disagi che si ebbero a Roma per una nevicata: “La neve che ha fatto a Roma, nujie la spàlame che le ciaotte”.
Gli anni della politica fatta per strada piuttosto che dentro gli uffici lo hanno visto protagonista assoluto, stipati in momenti di seria analisi politica con l’acume che gli invidiavano anche gli avversari e momenti goliardici in cui Gino Di Bartolomeo faceva da padrone di casa.
E’ stato tante cose: presidente della giunta regionale, senatore, presidente del consiglio provinciale, sindaco e soprattutto cittadino di Campobasso. E’ stato quindi anche divulgatore dell’identità locale e – non da meno – appassionato tifoso rossoblu.
Rispetto agli scenari politici cambiati lo consolavano proprio le sue pillole di saggezza popolare perché “Cè vuonne le fave toste né li cumbiette cà squagliène” amava ripetere a chi gli chiedeva perché la politica non funzionasse più come una volta. E se quel dialetto non era compreso, rispondeva compostamente: “Quando le cose devono essere fatte bene, ci vuole gente capace”.
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