Una storia da termoli

Angeli e “demoni”, le due facce del Covid di Paolo. “Io sopravvissuto, nessuno ci avrebbe scommesso”

Paolo Padovan, 57 anni, torinese finito a Termoli per amore, tecnico Fiat. Esattamente un mese fa (il giorno di san Silvestro) è uscito dal Cardarelli dopo due mesi di ospedale tra cui dieci giorno di Rianimazione. “Prima di entrare avevo già fatto testamento”. La sua “seconda vita” è sotto ossigeno, con l’inseparabile bombola alla quale è attaccato ma dalla quale può allontanarsi grazie a un congegno costruito da lui stesso e “dai miei ragazzi in Fiat”. Il suo racconto è toccante ma schietto, e affronta anche il rovescio della medaglia della “straordinaria umanità e disponibilità di medici e infermieri”.

È uscito dall’ospedale Cardarelli un mese fa. Il 31 dicembre è tornato a casa sua, a Termoli. In tempo per festeggiare San Silvestro ma soprattutto lo scampato pericolo rappresentato da un virus che, da piemontese verace qual è, Paolo Padovan definisce bastardo. Accolto dal “Bentornato nonno” di Enea, il piccolino di casa, dall’affetto commosso della compagna Paola, della figlia Valentina e del genero Michele, Paolo ha cominciato la sua seconda vita. Per il momento ancora sotto ossigeno.

Paolo. Padovani covid ossigeno convalescenza mascherina ffp2

La bombola è un catafalco ingombrante con un tubicino da collegare al naso lungo un metro e mezzo. Lui ha trovato il modo di usarla muovendosi ovunque grazie a una prolunga speciale ideata durante la degenza ospedaliera (“non potevo accettare che le infermiere mi lavassero a letto quando potevo benissimo andare in bagno da solo se non fosse stato per quel tubo troppo corto…”) e realizzata grazie all’aiuto dei colleghi di lavoro che hanno reperito materiale, seguito le indicazioni e gliel’hanno consegnata al Cardarelli, previo nulla osta dei dottori. (“Costa 5 euro, volendo se ne potrebbero dotare tutti i pazienti sotto ossigeno in modo da liberare il personale, che è davvero poco”).

Paolo. Padovani covid ossigeno convalescenza mascherina ffp2

Il senso pratico non gli manca, lo spirito di adattamento nemmeno. Tecnico della Fca, 57 anni, gira nell’appartamento con una coda di 10 metri che gli restituisce la libertà di movimento in qualsiasi stanza e per fare qualsiasi cosa. Il covid-19 l’ha preso nel peggiore dei modi possibili, e la guarigione non era affatto scontata. “Quando sono entrato in Rianimazione – ricorda, con l’unico tremito nella voce in più di due ore di racconto – una parte di me era convinta che non ne sarei uscito vivo. Ho voluto fare una videochiamata con tutta la famiglia che è stata quasi un rito di commiato”.

Paolo. Padovani covid ossigeno convalescenza mascherina ffp2

Benchè ormai sia negativo da un pezzo, il coronavirus ha lasciato cicatrici profonde, e parlare di ritorno alla normalità è ancora un auspicio senza data di scadenza: Paolo Padovan sta attraversando la fase complessa e impegnativa della riabilitazione, polmonare e fisica. E’ quello che si dice “soggetto a rischio” perché i suoi polmoni avevano già subito interventi. “Papà, con una storia clinica compromessa, fumatore da sempre, tre pneumotoraci, era il target ideale” commenta Valentina. Anche per questo lui era attentissimo. “Frequentando un ambiente di lavoro come la Fca, e in contatto con diverse squadre e diverse linee, ho seguito scrupolosamente le procedure anticontagio. Mascherina, doppia mascherina, alcool sempre a portata di mano, guanti, abiti da lavoro indossati nello spogliatoio, prima di uscire disinfezione generale”. Ma il virus è arrivato lo stesso, è piombato in famiglia non si sa come. Alla fine di ottobre la febbriciattola del nipotino e poi del genero, ma nessun sospetto di Covid. Il sospetto non l’ha avuto nemmeno lui all’inizio di novembre.

Com’è iniziato tutto?

“Con la febbre. Febbre a 38 e 2 al massimo. Con la Tachipirina scendeva e ho pensato figurati se è covid, come pensano tutti. Dopo il terzo giorno mi è venuto il dubbio e tramite il medico di famiglia abbiamo richiesto il tampone”.

 Quando hai fatto il tampone?

“Non sono arrivato a farlo, mi hanno dovuto ricoverare prima. I tempi della Asrem per il tracciamento sono troppo lunghi, e questa è solo una delle tante falle gestionali che ho riscontrato da malato covid. Il 7 novembre, era un sabato, non mi avevano ancora chiamato per il molecolare tanto che lo avevo prenotato privatamente. Ma quel giorno la febbre è salita a 39 e le cose sono precipitate”.

Cosa hai fatto a quel punto?

“Sono andato a Campobasso con mia moglie, nel pre-triage è arrivato un dottore, hanno misurato la saturazione e ascoltato i polmoni. Mi hanno rimandato a casa con un antibiotico dicendomi di stare tranquillo”.

Veramente ti hanno rimandato a casa?

“Si, mi hanno detto che andava tutto bene, che il tampone non potevano farmelo e che dovevano attenersi al protocollo”.

Paolo. Padovani covid ossigeno convalescenza mascherina ffp2

In casa in realtà erano già tutti positivi, pur senza la prova regina del tampone molecolare. Paola aveva perso gusto e olfatto, Valentina aveva la febbre. “Erano i giorni in cui il Molise stava entrando nell’occhio del ciclone – racconta la ragazza – ed era chiaro che era impreparato a fronteggiare la seconda ondata”. Il giorno dopo, domenica, la grande paura.

“La febbre non scendeva più – continua Paolo – e io non riuscivo a respirare. Il dubbio atroce si è trasformato in certezza: avevo preso il Covid”

Che sensazione hai provato?

“Terribile. Come quando corri e non sei allenato, i tuoi polmoni non reagiscono più all’afflusso di ossigeno che il corpo chiama. Aumentano i battiti cardiaci e sei affamato di aria ma non riesci a incamerare ossigeno. Sembra di soffocare, quindi vai nel panico. Abbiamo chiamato subito il 118”.

Dove ti hanno portato?

“Prima a Termoli, dove per prima cosa mi hanno misurato la saturazione che era a 90 e lì ho visto i medici cambiare faccia. Mi hanno fatto il tampone veloce che è risultato positivo, mi hanno chiuso in una stanza col cellophane, fatto un prelievo arterioso e una Tac toracica. Il mattino successivo, il 9 novembre, mi hanno fatto il molecolare. Ricordo che i risultati sono arrivati il pomeriggio. Alle ore 17 in punto mi hanno caricato sulla barella e portato in ambulanza al Cardarelli”.

Nel reparto di Malattie Infettive?

“Sì. Quinto piano, letto 25. Quattro letti nella stanza, un freddo pazzesco perché i termosifoni non funzionavano, il cellulare per chiamare medici o infermieri. Tutto intorno tanti bigliettini con i numeri da chiamare”.

Quando chiamavi arrivava qualcuno?

“Io devo dire, con tutta la solidarietà possibile per chi ha perso un parente, un familiare, che i ragazzi che lavorano lì dentro sono meravigliosi. Vivono fuori il reparto di Infettiva e ogni volta che entrano si devono bardare con copriscarpe, tuta bianca extrasudatoria, cappuccio, doppia mascherina, occhiali e plexiglass. Quando finiscono il giro dei pazienti escono e ogni volta che escono devono togliersi tutto, lavarsi e disinfettarsi. Con rischio di venire richiamati subito dopo perché il personale scarseggia. Ne servirebbero almeno il doppio”.

I medici invece come sono?

“Pochi anche loro, ma disponibili e gentili. Il primario, il dottor Santopuoli, lo vedevo quasi ogni mattina. Faceva il giro di tutti i reparti perché i pazienti covid al Cardarelli non sono concentrati solo al quinto piano, come ormai sanno tutti”.

In cosa consiste la terapia anti-Covid?

“Io ho iniziato con la Venturi, la maschera con i colori a seconda del quantitativo di ossigeno. Poi antibiotico, cortisone ed eparina. Sistematicamente il controllo della febbre e poi l’ossigeno fin quando arrivi a respirare autonomamente. Ma la mia saturazione non andava bene per niente e quindi, grazie anche a un dirigente medico di Orbassano amico di famiglia, lo pneumologo Walter Bernardi, hanno accelerato il mio trasferimento in Rianimazione. Non c’era altro modo. Purtroppo al Cardarelli non c’è un filo diretto con gli pneumologi, come invece dovrebbe essere visto che parliamo di una polmonite interstiziale. Altra falla della gestione, che a differenza del personale in servizio, molto professionale e competente, secondo la mia esperienza diretta fa acqua da tutte la parti”.

 Nel momento in cui ti hanno detto che dovevi andare in terapia intensiva hai avuto paura?

“Moltissimo, anche se con la saturazione che era scesa addirittura a 84 non c’erano alternative. La mia paura più grande è stata quella di non rivedere più la mia famiglia. Li ho voluti salutare tutti con una videochiamata, anche il piccolino. Era il 21 novembre, tarda mattinata ed è stato un momento quasi di commiato. Una parte di me era convinta di non uscire più. Avevo già iniziato a fare il testamento, iniziando dalla mia moto che avrei lasciato al nipotino”.

La figlia aggiunge: “Noi cercavamo di trattenere le lacrime, per fargli coraggio. Quando l’ho sentito dire che no, non avrebbe tirato i remi in barca, ho sospirato di sollievo. Ho capito che avrebbe lottato. D’altronde la parola rianimazione è una parola di vita, non di morte”.

Finita la telefonata più indimenticabile della sua vita Paolo ha spento il telefono, si è spogliato e in barella è andato sotto, in Terapia Intensiva. “E anche qui una riflessione: possibile che ci sia una sola strada per raggiungere Rianimazione da Malattie Infettive? Ma cosa hanno fatto fino a ora quelli che vengono pagati per prendere decisioni?”

 Cosa ricordi della Rianimazione?

“Una gentilezza squisita, sembra una clinica privata da fiction. Il primario Romeo Flocco e il suo vice Sergio Torrente sono eccezionali, come l’intero staff, fino all’ultimo degli infermieri e degli Oss. Ricordo questo e poco altro. Mi hanno addormentato, mi hanno svegliato dopo 8 giorni ma per me potevano essere passati 5 minuti o un anno. Non hai la cognizione del tempo in Terapia Intensiva: è tutto buio, l’unica luce è dietro di te, davanti hai due telecamere. E come essere in una cella di isolamento in prigione”.

Paolo. Padovani covid ossigeno convalescenza mascherina ffp2

Paolo è stato svegliato sia perché era migliorato che perché c’era bisogno di posti in Rianimazione. Trasferito nella sala operatoria di Ortopedia, è rimasto altri tre giorni intubato e al risveglio ha avuto un collasso respiratorio. “Lì ho conosciuto un altro angelo del Cardarelli, la dottoressa Rossella Calabrese, che con la sua voce e i suoi occhi è riuscita a tranquillizzarmi. E’ anche grazie a lei se è finita bene, e voglio dirlo”.

Il 7 dicembre, infine, il trasferimento di nuovo in Infettiva, ma stavolta in una stanza singola perché con tampone già negativo. Paolo Padovan è rimasto al Cardarelli fino al 31 dicembre, attaccato all’ossigeno del quale non può ancora fare a meno nemmeno oggi, a distanza di un mese perché la polmonite ha aperto ferite profonde nei suoi polmoni. Ma è vivo, avviato verso la guarigione.

Paolo. Padovani covid ossigeno convalescenza mascherina ffp2

Ti senti un sopravvissuto?

Sono un sopravvissuto. Quando mi hanno riportato in reparto dalla rianimazione una infermiera mi ha confessato che nessuno avrebbe scommesso un euro sull’esito di questa malattia, tanto male stavo messo. Sono un sopravvissuto e sono stato sommerso di amore e vicinanza, e anche questo ha influito. E’ strano da dire, ma il Covid, come tutte le cose della vita, ha un rovescio della medaglia”.

Quale?

“Ti rimette in linea con le priorità, le cose che davvero contano. E ti fa capire anche che ci sono persone straordinarie, disponibili, responsabili, professionali, a gestire l’emergenza in ospedale. La mia esperienza è stata positiva, anche se devo ribadire che va fatto un distinguo”.

Cioè?

“Una cosa sono medici, infermieri e Oss, alcuni dei quali a partita Iva – come mi hanno confidato con amarezza e con la paura di perdere il lavoro dopo 10 mesi di sacrificio dedicati all’emergenza covid perchè con lo scorrimento delle graduatorie potranno essere rimandati a casa – e un altro è la gestione.  Faccio un esempio: al Cardarelli hanno fatto lavori di adeguamento quando io ero lì, tanto che mi hanno trasferito in un’altra stanza in piena seconda ondata. Mi sono chiesto cosa sia stato fatto finora. La mia risposta è niente. Mi sono chiesto pure chi glielo fa fare a questi ragazzi di impegnarsi così tanto e con tanta fatica in questo contesto e in queste condizioni”.

La risposta?

“Sono migliori di chi è pagato dieci volte tanto il loro stipendio. Sono più capaci. E meno male che in corsia ci stanno loro, non altri”.

 

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