Campobasso

La pandemia come opportunità e i sorrisi imbavagliati. Ma il commercio cittadino arranca: “Meglio restare chiusi”

La fine del lockdown imposto per placare i contagi del Covid-19 non sembra aver riportato l’atteso ottimismo. E non solo per una questione di flessione economica e ridotto “potere di spesa”: molti commercianti del capoluogo hanno infatti lamentato la mancanza di entusiasmo e vivacità di una platea quasi “anestetizzata” dalle ripercussioni - sociali e relazionali - del “Coronavirus”. Un dato che lascia intravedere un futuro non esattamente idilliaco per il tessuto imprenditoriale e produttivo locale.

La pioggia, tra i vicoli e i ricordi. Sui vetri delle finestre chiuse in fretta, nelle solitudini di chi attende: il rilancio, il tempo che non ritorna. La vita di prima.

Ma intanto il telefono non squilla. Nella sala ristorante, tirata a lucido come sempre, solo silenzio. Una quiete brutale, avvilente, in cui persino il composto sfregare delle posate sembra frastuono. Braccia conserte in cucina, come nella reception: anche stasera nessuna prenotazione. Tavoli vuoti. Solo le ombre a riflettersi tra le policromie della vetrata d’ingresso.

Eppure siamo nel cuore della città; tra via Marconi, via Isernia e via Ferrari: lì dove vivacità e fermento dovrebbero permeare le stanze del weekend. Lì dove, invece, il mite bagliore degli antichi lampioni sembra ora illuminare un’altra storia, un’altra verità. Tetra.

“Se è davvero questa la ripresa – confessa sconsolato un ristoratore del capoluogo – meglio star chiusi”. Già, perché questa in fondo una “ripresa” non è, non ci assomiglia nemmeno vagamente. Ha piuttosto il sapore di una lenta agonia, di una scoscesa quanto dolorosa catabasi.

Il post-Covid19 è un’ombra che si allunga ben più avanti dei passi mossi verso un futuro possibile, uno spazio vuoto da riempire; un angoscioso sbadiglio, un rito di passaggio. Un trauma cui sembriamo spesso tristemente assuefatti. Un’abitudine e un abito concettuali, la perversa madre dei sorrisi elargiti con parsimonia.

Quattrocentomila occupati in meno negli ultimi due mesi (dati nazionali Istat) e concreti segnali di ripresa soltanto dal 2022 (analisi Banca d’Italia): scenari assolutamente poco confortanti, intrisi di paure e pessimismo, pervasi per altro da un impatto psicologico estremamente tassante. Per tutti. E nei piccoli centri, già flagellati dallo spopolamento, va pure peggio: lo stallo del tessuto economico-produttivo locale rappresenta infatti una minaccia capace di mettere in discussione l’esistenza stessa delle nostre città, dei nostri borghi. Il potenziale colpo di grazia, l’ultimo atto. Il sipario finale.

Ma è ora che bisogna avere coraggio. Perché questa è una missione impossibile da delegare. È la croce che ognuno di noi deve abbracciare, per portare sulle proprie spalle il peso della rinascita, del bene comune, del disgelo. Roba da arditi, certo; ma essere Paese significa anche e soprattutto questo: rispetto, responsabilità, amore per la propria terra.

Il disorientamento, i timori imbavagliati dalle mascherine, i dubbi e ogni malcelata diffidenza sono conseguenze logiche di uno stravolgimento – sociale, relazionale, organizzativo e interiore – che ha portato inattese fenditure nella nostra quotidianità. Ma non bisogna dimenticare, però, che più in là dell’emergenza sanitaria (reale) e di quella economica (allarmante) incombe uno spettro possibilmente ancor più nefasto: quello dell’abbandono; emotivo, prim’ancora che geografico. La resa, la lama di silenzi ineluttabili, la desolazione dei luoghi dell’anima, la speranza eclissata: brividi già tracciati a matita nelle latitudini delle nostre rotte.

Forse, però, la disfatta pandemica può evocare addirittura – e quasi paradossalmente – un’opportunità da non sciupare. Perché al netto delle restrizioni, delle farragini di sistema, della grottesca afflizione burocratica e delle manovre finanziarie sempre e rigorosamente in deficit, ci si presenta ora innanzi la stringente necessità di forgiare tempi e sensi nuovi. Di ripartire; da zero.

Resilienza, identità, coraggio. Procedere in ragione di una non più alienabile prossimità: affettiva, territoriale, empatica. Radici forti per fiori immortali.

In questa logica ritroveranno luce parole e gesti dimenticati, in questa logica sublimeremo il primato della solidarietà sul sospetto. La bellezza della tradizione, la grazia dell’autenticità come matrici di un ritorno all’essenziale. E una nuova “età dell’oro” non potrà dunque che procedere da qui: dalla nostra città, dalle sue strade, dai suoi simboli, dalla sua storia, dal suo patrimonio culturale e paesaggistico. Dalle sue botteghe, dai suoi negozi. Dalla sua gente.

Virtù e argomentazioni certo poco affini al barocchismo intellettuale di chi ancora accarezza sogni di cosmopolitismi pedestri, di chi vede “il mondo intero” come patria potenziale. Il totem del qualunquismo identitario.

La terra natia è una, come la madre. La terra natia è appartenenza ad un passato, a uno ed un solo suolo, ad una storia, al sangue versato da martiri e caduti, alle promesse dei nostri avi. È un vincolo ereditario più forte del tempo. È qualcosa che non si sceglie, che non si può obnubilare. E per quanto forte possiamo frignare, rinnegare, ritrattare, fingere di dimenticare, per quanto lontano possiamo andare…Lei non ci abbandonerà. Lei resterà: sopra ogni altra cosa, incisa sul cuore quale graffio e primo battito. Lei ci sarà. Sempre. A rimembrarci lo sbuffo di quel treno che ci portò lontano da casa; a parlarci di un vecchio tegame di rame appeso al muro e delle mani sapienti che ne conoscevano i segreti, a dissotterrare ricordi di neve, a cullarci dentro le infantili reminiscenze di certe vigilie. A ricordarci chi siamo.

“Agmen Quadratum”: così si schieravano le legioni del Romano Impero, dinanzi al nemico. Difendendosi, avanzavano. Verso la prossima conquista, verso la gloria che a loro spettava. Difendiamoci, dunque, anche noi. Ma senza mai rinunciare ad avanzare, con lucidità. Lungo i sentieri di questi giorni complessi, marciando sui retaggi delle nostre paure.

Riappropriamoci, almeno, dei nostri nidi, dei nostri luoghi, di un’esistenza che oggi può essere addirittura rinnovata e rinvigorita dal lume del discernimento.
Il resto, chiaramente, lo riavremo solo e soltanto quando burocrati e “compari” sparsi tra Roma e Bruxelles ci consentiranno davvero – e non a chiacchiere – di tornare a lavorare con dignità. Perché con il sudore della propria fronte gli italiani sono già risorti da una guerra. E c’è chi è pronto a giurare che saprebbero farlo ancora. Ma forse, in certi corridoi, é proprio questa consapevolezza a risuonare come rischio e sciagurata ossessione.

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