Debolezze & vulnerabilità

Coronavirus, quando la paura diventa psicosi. La crisi della bellezza spirituale

Il male di questi tempi, illuminato dalla patologia di questi giorni. Il Coronavirus ha rivelato debolezze e fragilità largamente condivise. La corsa alle farmacie, l’assalto ai supermercati - manco fossimo stati sull’orlo di una battaglia intergalattica - e l’ansia febbrile che ne ha generato le dinamiche, rappresentano i sintomi di una profonda vulnerabilità psichica. Inevitabile, se l’unica ricerca esistenziale è votata alla materialità.

“Il sonno della ragione genera mostri”. Tra isteria e terrore oscilla il pendolo del contagio: emotivo e psicologico, prim’ancora che clinico. Una clessidra di concitazioni galoppanti scandisce il tempo lento dell’insicurezza, della precarietà, del disagio collettivo che diviene incubo condiviso.

Coronavirus, annus Domini 2020. Un lemma che stiamo imparando a conoscere e ricordare; una finestra affacciata sul brullo paesaggio dell’umana caducità e della sua proverbiale impotenza. Sugli scorci plumbei dell’inesorabile.

Scenari, volti e fotogrammi come usciti dalla pellicola di un mediocre horror a tinte apocalittiche; cronache dei giorni nostri. Desolazione, silenzi ripercossi, serrande chiuse; scaffali vuoti dai supermarket, farmacie prese d’assalto. Reminiscenze da “Resident Evil”.

Mentre tutt’intorno la vita rallenta, si piega su sé stessa, sbadiglia. Mentre appena più in là, protetto dalla nebbia dell’oblio, l’aspide sinuoso dell’angoscia comincia – lento e inesorabile – a stringer le sue spire attorno alle coscienze fragili.

Non il Covid-19: il vero morbo è la paura.

Protagonista indiscussa di queste ultime tormentate settimane, del plot surreale cucito addosso ad una quotidianità d’un tratto spaesata, rarefatta, ferita; scopertasi straordinariamente capace di prestare il fianco ai prodigi del non-senso.

E così, dopo le folli corse alle “riserve” di cibo – manco fossimo in procinto di una guerra intergalattica – e a quel prodigioso ritrovato sanitario che risponde al nome di “Amuchina”, è scattata puntuale pure la febbrile ricerca dell’aggiornamento costante, delle cifre e delle possibili evoluzioni (tutte nefaste, naturalmente), dell’elenco di decessi, quarantene, focolai e contagi. Una progressiva ed estenuante processione verso il baratro esistenziale.

Ed è proprio questa la sciagura più grande: quella di aver fatto di noi stessi dei voraci consumatori di paura.

Tale passaggio, però, non si è consumato in maniera propriamente automatica. È stato ed è, piuttosto, il sintomo di una patologia ben più insidiosa di qualunque ceppo influenzale, di qualsiasi pandemia: la crisi della dimensione contemplativa e spirituale, della bellezza del trascendente.

Porto sicuro, rifugio da ogni dolore o rischio virale. Graal del sapiente; nicchia di sublime conforto, tabernacolo d’atarassia.

Rinunciando cioè al “dàimon”, siamo stati sopraffatti dai demoni. Che ora ci assalgono, in legioni: il timore della morte, della solitudine, del non riuscir più a godere della pienezza di noi stessi, di esperire le piaghe del corpo, della povertà, della fiacchezza e della privazione. Della malattia.

La verità è che siamo nulla. E nullo è il nostro potere dinanzi al grande mistero dell’esistenza e al supremo impeto del suo lato oscuro. È bastato un organismo microscopico a ricordarcelo. Quasi fosse uno sberleffo alle leggi dell’uomo, al suo delirio d’onnipotenza, alle sue torri d’avorio.

È bastato un organismo microscopico a metterci in ginocchio, a far di noi dei naufraghi in balia di tempeste spettrali, dei bimbi viziati in preda ai piagnistei, poppanti che implorano mamma e papà di accendere la luce per venire via dalle maglie dell’incubo.

Mentre lei, la Paura – antica ombra del Tristo Mietitore – continua a tenerci avvinghiati al suo seno martoriato e infetto come un’abietta prostituta, a nutrirci col siero marcio dell’insicurezza, della fobia ipocondriaca. A renderci succubi: di noi stessi, delle nostre fragilità.

Avremmo dovuto farne di provviste, certo. Per affrontare la notte che ci attraversa, il vuoto esistenziale che ci pervade, i silenzi interiori che spesso abitiamo facendo finta che vada tutto bene, che il problema risieda in un “altrove” diverso da noi.

Ma è un affare tremendamente ostile abbracciare la consapevolezza del fallimento; doloroso oltremodo riconoscere nello specchio il nostro boia, il responsabile del nostro incrollabile senso di frustrazione e infelicità.

Meglio sfregarsi le mani con un antibatterico. Del resto, il Coronavirus è pur sempre colpa di qualcun altro.

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