Termoli

Palazzo Crema al Terzo Corso: un secolo di vita tra personaggi, storia e ricordi

Un affresco inedito del fabbricato i cui lavori sono iniziati nel 1928 e il cui futuro oggi è ancora avvolto dalle nebbie. La falegnameria, gli appartamenti modernissimi per l’epoca, il giardino di donna Berenice, i bambini che saltellavano sulla Scalinata. Disabitato da decenni, Palazzo Crema è un edificio denso di storia che vale la pena rievocare per tenere viva la memoria sulla città.

La notizia è di poche ore fa: un altro pezzo di palazzo Crema, all’incrocio di via Aubry con via Delcroix, staccatosi dal fabbricato è piombato a terra, per fortuna senza causare danni. Vuoto ormai da alcuni decenni, da quando non vi abitano più i vecchi proprietari, rovina anno dopo anno in assenza di qualunque intervento conservativo efficace da parte dei nuovi acquirenti.

Con esso sono tre nella zona centrale di Termoli i grandi fabbricati in uno stato di degrado più o meno avanzato. Gli altri due sono il palazzo ex Norante tra via Roma e lungomare C. Colombo e il complesso industriale della ex Novaro, situato tra via Duca degli Abruzzi, via Diaz e via Cavour. Dei tre il più in “salute” sembra essere l’ultimo.

Dell’ex cinema Adriatico, Primonumero si è già ampiamente occupato tempo fa. La sua vetustà risale alla metà dell’Ottocento (1856-1862). Assai più giovani di età gli altri: 1928 palazzo Crema, 1936 la Novaro (primo anno di attività dopo il subentro nell’ex oleificio dei fratelli Capecce). Anche di ciò che “bolle in pentola” per l’ex Novaro il nostro giornale ha riferito recentemente.

Ciò che si prospetta per il palazzo Crema è invece ancora avvolto nelle nebbie. Non si sa quanti siano i nuovi proprietari, né si conoscono tutti i loro nomi. Dopo la speculazione selvaggia che, con la complicità politica di una classe amministrativa cittadina, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Settanta del secolo scorso ha deturpato il volto della città (centro abitato e centro storico compresi) e compromesso il suo ordinato sviluppo, la presenza oggi di questi tre fabbricati aggiunge nuove ferite.

Quella di Palazzo Crema è una storia particolare segnata da problemi fin dal principio. Erano appena cominciati nel 1928 i lavori di scavo e delle fondazioni quando arriva lo stop del Comune. È l’inflessibile podestà Angelo Cieri a ordinarlo: “Ritenuto che il sig. Crema Giovanni fu Angelo ha intrapreso la costruzione di un fabbricato in prossimità dello spiazzale del Porto, prospiciente al mare, in confine con la strada di accesso al Porto medesimo senza presentare al Comune regolare progetto, contrariamente alle tassative disposizioni del vigente Regolamento Edilizio…”

Pur avendo avviata la costruzione del fabbricato il proprietario, titolare di una impresa edile, nel settembre di quello stesso anno non disponeva ancora della progettazione completa (s’impegnava tuttavia a presentarla), ma solo di una pianta riportante la sezione dei muri perimetrali.

Dalle carte esaminate si ignora se prima di proseguire abbia ottenuto anche l’approvazione della “Soprintendenza all’Arte medioevale e moderna della Regione” come richiesto esplicitamente dal podestà: “Considerando che la costruzione, poteva danneggiare l’aspetto delle bellezze panoramiche della località”. Fatto sta che il fabbricato nacque all’inizio degli anni Trenta e subito abitato.

La casa innalzata presentava un aspetto molto strano dovuto al fatto che il lato ovest (quello dove nel 1941 sarà costruita la scalinata) era ostruita da un alto terrapieno che arriva a sfiorare le finestre del primo piano. Ciò impediva ogni apertura nella parte bassa del fabbricato, quella dove avevano scelto di abitare Giovanni Crema con le famiglie dei figli Maria, Rocco e Nicola. Mancavano poi del tutto i balconi, oltre a non essere mai intonacata, e mai lo fu interamente, fino a oggi.

Due gli ingressi, per uno dei quali fu necessario costruire un’alta scala in muratura che dall’esterno potesse accedere agli appartamenti. Scala danneggiata nella circostanza dello sbarco degli inglesi, abbattuta e sostituita per lungo periodo di tempo da una in legno, tipo quelle che si adoperavano per le costruzioni, fino a che non fu costruita una interna in muratura.

Gli appartamenti misuravano poco più di una trentina di metri i più piccoli, di quasi il doppio gli altri. Tutti però disponevano di bagni e di acqua corrente, la cui erogazione fino agli anni Cinquanta è stata assai problematica, come del resto per le altre parti della città. I servizi in case di quel tipo erano tuttavia a quel tempo una novità. Chi ne disponeva poteva sentirsi quasi un privilegiato.

Tra gli altri operai e commercianti vi hanno abitato Edgardo Rosati, un ex capitano di artiglieria, reduce dalla guerra di Libia, Giacinto De Pasqua, grande invalido della guerra 1915-18 e membro della milizia ferroviaria fascista e il podestà fascista Giovanni Cucumo con la sua numerosa famiglia.

Come accennato, il vasto piano sottostante gli appartamenti in affitto era abitato in tutta la sua lunghezza dalla proprietà, cui si aggiunse dopo un ampio terrazzo a suo esclusivo uso. Al di sotto di esso, con ingresso dal lato est vi erano le stalle (l’impresa dei Crema aveva operai addetti al trasporto con carretti trainati da cavalli. Si ricordano in proposito i fratelli Martino), e la falegnameria. Lo spazio antistante era invece occupato da un fossato contenente calce viva, deposito materiali e tubi di cemento costruiti sul posto da bravi operai (uno di questi era Michele Galasso).

Chi ha abitato in quelle case (ormai solo qualche figlio superstite degli affittuari del tempo) ricorderà quel grande fabbricato pieno di vita e di attività operosa. Non dimenticherà ai primi di ottobre del 1943 il risalire dal porto dei soldati inglesi appena sbarcati, mentre il capitano Rosati affacciato alla finestra del suo appartamento li applaudiva platealmente al grido di “Viva i liberatori!”. E neppure i lunghi, duri mesi dell’allontanamento imposto dagli Alleati a quanti abitavano tra Corso Vittorio Emanuele III e il lato mare di Via Fratelli Brigida.

Tornerà con la memoria a riascoltare il rumore della sottostante segheria, il nitrire dei cavalli, i richiami e le imprecazioni degli operai al lavoro, il battere sull’incudine proveniente dalla bottega di fabbro di mastro Bucciarelli appena sotto l’arco del borgo vecchio, il vociare continuo dei vecchi pescatori affacciati al belvedere della Torretta, accanto alla cantina di Egisto Biffaroni, a commentare i fatti del giorno o il loro passato avventuroso di uomini del mare.

Avrà ancora davanti agli occhi la visione delle lunghe file dei dipendenti il sabato sera lungo via Aubry davanti all’ufficio della ditta in attesa di riscuotere gli acconti di salario per il lavoro prestato, del passeggiare quotidiano intorno alla casa di Giovannino Crema, ormai anziano, tutto vestito di nero, cappello compreso, della figlia signora Maria alle prese con le frequenti emicranie per le quali usava cingersi a mò di protezione la testa con un fazzoletto, degli strilli della simpatica Ninetta (tuttora vivente), impegnata in cucina.

Non gli sarà sfuggito l’andirivieni operoso di Rocco Orlante, genero di Crema, intelligente e concreto gestore di non poche attività della famiglia, la cui vita fu stroncata ancora troppo presto in un grave incidente stradale. Dopo la guerra un altro andirivieni, quello dei camion facenti la spola tra le cave di pietra di Guardialfiera e il porto, si giovava, ingaggiati dall’impresa Crema, dell’opera di autisti provenienti da lontane regioni del nord e spesso di mezzi acquisiti dopo la partenza degli Alleati.

E poi la scalinata dove saltellavano durante tutto il giorno i bambini che per i loro giochi alternavano quel luogo con il vicino del giardino senza recinzione della benestante Berenice Campolieti, poi divorato da enormi fabbricati, oppure con le scogliere del porto.

Soprattutto avrà sicuramente nostalgia delle albe infuocate, delle Tremiti all’orizzonte e del Gargano nelle giornate terse, delle paranze e dei battelli dalle vele colorate e poi dei motopescherecci che andavano a pesca o che da essa tornavano. Con sgomento penserà alle tremende burrasche viste dietro i vetri delle finestre che mettevano a rischio serio le imbarcazioni al rientro in porto e con un certo piacere alle levantate e alle sciroccate penetranti in ogni interstizio della casa.

Immagini che lo accompagneranno nel resto della sua vita, un pezzo della quale trascorso in quell’angolo di terra termolese posto all’inizio del cosiddetto Terzo Corso, appena fuori le porte del Borgo Vecchio.

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