I cento anni dei lupi

Raffaele Di Risio e la B col Campobasso. “Vivevamo per far gioire un’intera regione. E con Scorrano…”

La bandiera rossoblù, centrocampista roccioso e fondamentale per la squadra che fece impazzire il Molise, si racconta in un’intervista intensa, intima, ricca di aneddoti: “Aver indossato la maglia dei Lupi, per un molisano doc nato a Baranello, è stata una cosa importantissima, quello che si avverte sulla propria terra è diverso, è qualcosa di indescrivibile”. E su Michele Scorrano rivela: “Era un capitano perfetto, io conosco forse più di tutti la sua storia, e posso dire che è stato trattato male sul famoso contratto del 1984, mi sono sempre meravigliato del nostro amato e indiscusso presidente Molinari”.

“In quegli anni si viveva per far esplodere di gioia il Romagnoli e regalare un sogno ai giovani molisani”. Parole che andrebbero stampate a caratteri cubitali e inviate ai posteri. Soprattutto se a pronunciarle è uno dei massimi artefici della storia del Campobasso: Raffaele Di Risio. Una favola bellissima, intensa, fatta di 141 partite, 7 gol, polmoni offerti alla causa rossoblù, baluardo di un centrocampo tosto, paladino di valori che si vanno perdendo. Dici Di Risio e ti compare Scorrano, il più grande tra i capitani: inseparabili, uniti dentro e fuori dal campo da quel sangue molisano decisivo in tante ‘battaglie’ al Vecchio Romagnoli. Raffa, come lo chiamano molti nel capoluogo, accetta volentieri di farci il regalo di un’intervista ricca di aneddoti, fatti che rischiavano di cadere nel dimenticatoio, e rivolge i suoi auguri speciali per il Centenario. E allora, allacciate le cinture e tuffatevi nei mitici anni ottanta, quelli d’oro del Campobasso.

“Aver indossato la maglia rossoblù, per un molisano doc nato a Baranello, è stata una cosa importantissima – esordisce –. Io ho giocato con dodici squadre diverse ma quello che si avverte sulla propria terra è diverso, è qualcosa di indescrivibile. Ho cercato sempre di dare il massimo ovunque, ma giocare con la squadra della tua regione ti mette in una situazione in cui vuoi a tutti i costi che le cose vadano bene e che la gente sia felice, anche perché viviamo in una regione abbastanza depressa”.

 

Domanda ‘banale’: qual è la partita che le è rimasta più nel cuore?

“Dico Campobasso-Reggina, perché lì ho capito che si andava a completare un disegno importantissimo per la regione. Al fischio finale di quella partita che terminò 1-0 era come se volassi, correvo ma mi sentivo leggero avendo raggiunto un risultato straordinario al termine di tanti sacrifici. Magari la gente pensa che il calcio sia tutto rose e fiori, ma non è così. Quell’anno, stagione 1981/1982, è stato molto duro e difficile: eravamo quasi ultimi con Montefusco, la squadra con lui era potente ma aveva poche idee e non era snella. Poi arrivarono giocatori tecnici come Biondi, Biagetti, Maragliulo, Ciappi in porta… E quella rimonta pazzesca. Ci sono state tante altre partite che restano nel cuore”.

 

In quegli anni d’oro si rendeva conto davvero delle pagine di storia che stavate scrivendo?

“In quei momenti no, ma rivedendo le immagini e rileggendo le cronache di allora ti accorgi che hai giocato e in molti casi vinto contro le squadre più forti, Juventus, Milan, Lazio, Fiorentina, Verona campione d’Italia. Non ci si pensava all’epoca. Ora ci penso e dico: quel Campobasso riuscì a battere la Juventus, e la Juventus non si batte mai per caso. E non è un caso neanche aver fatto tutte le altre imprese. La squadra era forte in tutti i reparti, non straordinariamente bella ma essenziale e composta da giocatori che si guadagnavano la pagnotta. Per segnare un gol a quel Campobasso ce ne voleva, era difficilissimo. Di centinaia e centinaia di partite ne ricordo solo un paio in cui si perse male a livello di risultato, a Como e a Perugia”.

 

Per i più giovani, qual è stato il percorso di Di Risio prima di arrivare a giocare in B col Campobasso?

“Mio fratello Giovanni, che ha insegnato tanti anni a Campobasso, mi portò alla Virtus. Avevo dieci anni: feci i campionati pulcini, andai a fare un provino col Torino. Mi tesserarono, ma poi mi arrivò una lettera in cui mi dicevano che non avrebbero potuto prendere calciatori che vivevano a una distanza superiore ai 700 chilometri. Andai in prestito al Campobasso, e lì è iniziata la mia storia rossoblù. Ho giocato già nel 1969 qui ma da attaccante, ho fatto un anno a Isernia, poi tornai in serie D. In seguito all’Avellino in B e da lì Cavese, Juve Stabia, Salernitana, Nocerina, Triestina e poi il ritorno a Campobasso. Con una parentesi a Milazzo in prestito dall’Avellino”.

 

Inevitabile un pensiero al Capitano Michele Scorrano ricordando quegli anni…

“Michele Scorrano ed io eravamo i classici molisani. Come disse anche Rocco Sabelli al Savoia qualche anno fa, Michele ha rappresentato in toto il molisano: pur non avendo una grande tecnica, con la determinazione e la volontà ferrea si possono raggiungere traguardi impensabili. Un esempio incredibile per i giovani. Io conosco forse più di tutti la storia di Michele, e posso dire che ha dato tanto ma non è stato trattato benissimo, e su questo mi sono sempre meravigliato del nostro amato e indiscusso presidente Molinari”.

 

Lei si riferisce all’addio del 1984, è così?

“Sì, e posso affermare che si decise a tavolino di farlo fuori. Ma non si fa così perché quando una persona è ben voluta dal gruppo va tutelata, è essenziale perché tutti ti riconoscono come capitano. Michele era particolare ma era un capitano perfetto. Il campionato precedente era andato bene e l’ingaggio, per l’anno successivo, sarebbe stato aumentato di un venti percento circa. A tutti fu aumentato, a Michele no. Hanno giocato sul suo orgoglio, purtroppo. Lui disse che non avrebbe firmato per una questione di principio, non capendo quel trattamento diverso rispetto agli altri. E il presidente rispose che poteva andare via. Non se lo fece ripetere due volte. All’uscita lo vidi pallido, sconvolto. Pianse tutta la notte, ero dispiaciutissimo. Noi siamo stati sempre in stanza insieme quando si andava in ritiro e in trasferta. Fu una nottata amara…”.

 

Proprio non si poté fare nulla per ricucire quello strappo così doloroso?

“Racconterò un altro aneddoto altrettanto amaro: c’erano sei giocatori che non ancora firmavano, tutti di prima fascia e conosciuti. Li chiamai proponendogli di non firmare fin quando non sarebbe tornato Michele. Tutti furono d’accordo ma all’atto pratico firmarono i propri contratti uno dopo l’altro lasciandomi per ultimo, e ho dovuto firmare anche io. Nel calcio ci sono tanti valori ma di fronte al denaro molti non ne hanno. Ecco perché spesso mi defilo. Michele era il capitano perfetto. E dirò di più: in campo lui controllava me, fuori era un po’ il contrario. Io quando perdevo la testa andavo nel pallone, facevo entrate dure e ne ho prese anche tante. Lui mi prendeva per il braccio in quei momenti premendomi sul muscolo fin quando non mi riprendevo. Il dolore restava per cinque-sei giorni…”.

 

Dei calciatori invece più recenti chi merita di essere ricordato?

“Bisogna parlare innanzitutto di Antonio Minadeo, che può essere simpatico o antipatico ma nel calcio, soprattutto nostrano, bisogna fare di tutto per restare uniti. Molto spesso chi gestisce le situazioni, le società, tenta di tenere lontane alcune persone ed è sbagliato. Queste persone sono le stesse che nel campo, e fuori come in questo caso, hanno dimostrato forza e serietà. Minadeo è di diritto nell’elenco di quelle persone che bisogna ricordare per sempre nel calcio campobassano. Posso parlare di Corona, Romiti, lo stesso Moretti che aveva un sinistro pazzesco, sono diversi quelli che ho apprezzato. Mi ha sempre colpito la capacità di Rosario Majella di essere così puntuale sotto porta. Non è facile per un attaccante fare quello che ha fatto lui, giocava in serie D ma 60 gol in due stagioni e mezza non si fanno per caso”.

 

Come vede l’attuale situazione societaria e tecnica del Campobasso?

“Gli ultimi risultati sono positivi. L’unica cosa è che mi farebbe piacere se la società fosse un po’ più presente nella città. È gente che vive lontano, ma servono punti di riferimento. Prima c’era Minadeo, c’era qualche altro, ora è difficile avere rapporti. Si sono accumulati 15 punti di svantaggio dalla prima, quindi qualcosa si era sbagliato all’inizio. Aggiungo che non sono d’accordo sul fatto di dover sempre cambiare tutta la squadra per rifarla. La nostra forza si fondò proprio sul gruppo che ogni anno veniva rafforzato con un paio di elementi ma la spina dorsale rimaneva quella. Quando io prendevo la palla sapevo già cosa dovevo fare e lo pensavano anche i compagni. I meccanismi sono impossibili da trovare subito con gente tutta nuova”.

 

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