Vita a monacilioni

Via dal Venezuela, la speranza è un paesino molisano: “Contavo le ossa di mio figlio sotto la doccia, ora siamo rinati”

La testimonianza di Andrea De Santis e dei coniugi Juan Pablo Uretra Bolivar e Maria Alejandra Pannitto, tutti fuggiti dal Paese sudamericano e ora residenti a Monacilioni. “Somiglia un po’ alla nostra patria, si vive bene”

Nella regione in cui i giovani scappano, in cerca di lavoro e futuro, c’è gente che arriva e per la prima volta nella propria vita può evitare di pensare con ossessione e angoscia al proprio futuro. Sono persone scappate dalla fame, quella vera del Venezuela. Quella che ti fa guardare i tuoi figli fare la doccia e notare che le ossa si contano una ad una, per quanto sono magri. Perché non mangiano, perché non hai nulla da portare a tavola.

“Ho passato anni a pensare a cosa avrei fatto dopo, adesso non più”. Maria Alejandra Pannitto, 41 anni, è la nipote di Antonio e figlia di Mario Andrea Pannito, fuggiti da una Monacilioni poverissima all’inizio degli anni Cinquanta per raggiungere il piccolo paese di San Mateo. Scavando nei ricordi, a pochi giorni dal suo approdo in Molise, ha le lacrime agli occhi ma scandisce le parole in un italiano già buono, grazie allo studio della nostra lingua.

È a Monacilioni da una sola settimana quando per gentile intercessione del sindaco Michele Turro, racconta a primonumero.it la sua storia di emigrante di ritorno, in compagnia del marito Juan Pablo e della connazionale Andrea De Santis.

La famiglia di quest’ultima è stata invece la prima delle quattro venezuelane che oggi vivono a Monacilioni, ad arrivare in Molise nell’agosto 2018. “Eravamo stati prima in Abruzzo, ospiti di un parroco. Ma non potevamo restare e siamo dovuti andar via. Ci siamo trasferiti prima a Toro, il paese di mio nonno e poi qui grazie a una colletta del comitato. Ci troviamo bene, ormai ci conoscono. Ogni giorno imparo una cosa nuova. Prima chiamavo tutti signore e signora, ma mi hanno detto che non si fa. Pensavo fosse una forma di rispetto, come da noi. Ma ho notato che qui usate più zia o zio, per rivolgersi agli anziani”.

Per questa giovane mamma di 33 anni, che prima di approdare in Italia era infermiera a Barquisimeto, Monacilioni ha qualcosa del Venezuela. “Perché sono tutti molto accoglienti, non fanno discriminazioni”. Il Paese sudamericano che queste famiglie hanno dovuto abbandonare, non è sempre stata una nazione povera fino allo sfinimento. Anzi “era ricco e prosperoso. Gli europei, sia italiani che spagnoli, portoghesi e tedeschi, sono arrivati in massa negli anni Cinquanta. L’integrazione non ha dato problemi, anzi. Ognuno aveva il suo posto, a scuola non c’erano distinzioni. Ogni popolo prosperava in un commercio”.

Il cambiamento radicale risale a vent’anni fa e all’avvento al potere di Chavez. Juan Pablo Utrera Bolivar, 50 anni, che in patria faceva il giornalista alla radio, è sempre stato un suo oppositore. “Ho provato a mettere tutti in guardia del pericolo che si correva a eleggere Chavez. Ma la gente era convinta avrebbe portato il socialismo democratico. Invece il Venezuela è diventato un Paese dominato dalla dittatura narcoterrorista”.

Non ha paura di utilizzare parole forti Juan Pablo. Oppositore fiero del regime che era di Chavez e ora di Maduro, è fuggito dal Venezuela e da Maracay con la sua Maria Alejandra e i due figli principalmente per due motivi.

Il primo lo racconta lei. “Negli ultimi anni i prezzi del cibo sono saliti alle stelle e i generi alimentari scarseggiano nei negozi. Eravamo arrivati al punto che il nostro frigorifero, prima sempre pieno, era diventato vuoto. Dovevo dare da mangiare ai miei figli un po’ di alici e pane grattugiato fritto con grasso di pollo, perché l’olio non c’era. A volte preparavo loro la cena e non mangiavo. Con loro mentivo, dicevo che avevo mangiato, ma non era vero. Li mandavo a scuola sono con acqua e platano. Loro adoravano il succo di parchita (in italiano maracuja, frutto simile al mango, ndr) ma non avendo più lo zucchero, non potevo più farglielo. Li vedevo sempre più magri, scheletrici. Non potevamo continuare così”.

Il secondo motivo è altrettanto serio e va oltre il fattore sicurezza, sempre alla ribalta con le tante notizie di cronaca nera e i molisani uccisi, come testimonia Juan Pablo. “Ho saputo da alcuni miei amici con conoscenze nel governo che ero finito in una lista nera degli oppositori. Rischiavano di finire incarcerato e torturato”. Così hanno deciso di fuggire. Prima a Panama, poi in Perù. Dove si sono dovuti adattare a fare i lavori più umili. “Distribuivamo bottiglie d’acqua a chi passava in autobus. Ci gettavano i soldi per strada ed ero costretta a raccoglierli da terra. Dovevo far mangiare i miei figli”.

Finché uno spiraglio, la speranza, i documenti da mettere a posto tramite l’ambasciata italiana in Perù. “Ci hanno aiutato il comitato Molise Pro Venezuela e l’associazione Giuseppe Tedeschi. Michele Petraroia, quando ha sentito la nostra storia, si è subito interessato e ci ha fatto arrivare qui. Possiamo solo ringraziare lui e tutti quelli che si sono impegnati per noi”.

È difficile anche solo immaginare le condizioni di vita a Caracas e dintorni. “L’80 per cento dei nascituri muore per mancanza di cure mediche – assicurano i tre -. Non ci sono medicine, costano troppo. La gente muore perché non può curarsi”.

Andrea è ormai in Molise da quasi un anno e mezzo. Suo marito lavora a Campobasso e piano piano si stanno integrando. “Se qualcuno ci ha mai fatto sentire stranieri? A me no, anzi mi trattano tutti bene, mi aiutano. Per gli africani è diverso, non hanno una connessione con gli italiani come ce l’abbiamo noi”. Poi ci riflette. “A pensarci bene, visto che mio marito è scuro di pelle e io sembro italiana, quando andiamo da qualche parte la gente si rivolge sempre a me. Ma non penso sia diffidenza, forse credono lui non capisca l’italiano. Invece lo sta imparando meglio di me”.

A Monacilioni, paese che per l’Istat al 1 gennaio 2019 contava 483 residenti ma che a sentire i cittadini ne conterà sì e no 300, i venezuelani sono stati accolti bene, ma un po’ di diffidenza rimane. “Nulla contro di loro, per carità. Ma se già qui non c’è lavoro e i giovani scappano, cosa potranno fare loro? Va bene accoglierli, ma poi cosa faranno?”.

Il paese conta su una scuola che comprende bimbi dell’Infanzia e della Primaria, ma già per la Secondaria di Primo grado occorre andare fuori. Distante soli 20 chilometri da Campobasso e su un’altitudine di 590 metri, Monacilioni appare il tipico paese molisano, dove il tempo sembra essersi fermato, fra il negozio di Alimentari vecchio stampo, la piazza col monumento dedicato proprio agli emigranti, la sede dell’associazione culturale.

L’obiezione ai dubbi dei residenti è che magari potrebbero essere proprio i venezuelani una delle chiavi per il rilancio, o almeno il ripopolamento di paesi che sembrano sul punto di scomparire. Anche perché di possibili emigranti di ritorno ce ne sono molti. “Quello che chiediamo all’Italia è proprio di semplificare il modo per preparare i documenti per chi vuole lasciare il Venezuela e rientrare qui. La Spagna lo ha fatto già da tanti anni. E poi sarebbe ottimo se le nostre competenze e i nostri studi fossero riconosciuti. Io sono infermiera – dice Andrea – ma qui in Italia non posso fare questo lavoro. Dovrei andare all’università, ma costa troppo”.

Ma del Venezuela cosa pensano, è sull’orlo di una guerra civile? “Sì, è la cosa più probabile. Guaidò? Ormai noi venezuelani non crediamo più a nulla”. Per queste persone futuro è una parola priva di un significato reale, esiste il presente, fatto di un posto dove vivere e tre pasti al giorno, grazie soprattutto alla solidarietà dei molisani.

 

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