Lo sguardo di stefano di leonardo

In Molise ci si ammazza di lavoro. Letteralmente

afFondo/16 - Una piccola strage in pochi giorni. Le morti bianche si susseguono nella nostra regione fra l'assuefazione generale. L'indignazione dura qualche ora, poi si fa finta che nulla sia successo. Fino alla prossima tragedia

Ma chi l’ha detto che il lavoro dalle nostre parti scarseggia? Al contrario, si lavora così tanto, che di lavoro si muore. Triste verità a leggere le cronache degli ultimi giorni. Basta fare un giro sui siti di informazione o ascoltare un notiziario in tv. Quasi tutti i giorni il coma irreversibile della sanità regionale fa il paio con un morto vero sul posto di lavoro. Lo stillicidio dell’economia si intervalla a una tragedia in cantiere, il dramma delle nostre infrastrutture è secondo soltanto alla quotidiana disgrazia nelle campagne.

L’effetto è quello del medicinale preso a più riprese. L’organismo si abitua, subentra l’assuefazione e l’effetto svanisce. Così per le notizie tragiche. Ormai l’indignazione dura qualche ora, oppure colpisce solo i più sensibili al problema o a chi ha maggiormente a cuore la questione.

Per tutti gli altri è routine, un titolo da scorrere col pollice sullo smartphone, tra la foto di un gattino e l’ultimo gol di Cristiano Ronaldo. È l’era dei social, del flusso ininterrotto delle informazioni, in fiume in piena che travolge non solo l’approfondimento, ma persino il dolore derubricato a banalità.

Negli ultimi giorni le cronache molisane raccontano una piccola strage. Martedì 19 novembre il decesso di Michele Calabrese, soli 43 anni, travolto da una lastra di marmo in un’azienda di Bojano.

Lunedì 18, poche ore prima, era scoccata l’ultima ora per l’allevatore Bruno Pallotta, della nota famiglia di produttori di formaggio di Capracotta. Precipitato in un burrone mentre tentava di recuperare una mucca. Al 49enne è toccato un destino beffardo. Ha avuto la lucidità di chiamare i soccorsi, ma quell’elicottero che gli avrebbe salvato la vita non è mai arrivato e, quando i soccorritori sono giunti a piedi, era troppo tardi. È morto sulla barella prima ancora di arrivare in ospedale.

Ed è di giovedì 21 novembre, sebbene la morte risalga a un paio di settimane fa, il funerale di Michele Vitantonio, 56 anni. Stava raccogliendo le olive a Guardialfiera, lui di Ripalimosani. È caduto da un albero, ha battuto l’osso del collo. La corsa in ospedale, i tentativi di tenerlo in vita. Tutto inutile.

Viene da chiedersi quanti come lui tutti gli anni si infilano guanti o stivali, tute da lavoro o vecchi maglioni, e si ‘inventano’ agricoltori per qualche giorno, per dare una mano all’amico o al parente di turno, magari in cambio di qualche lattina d’olio, evitando così di andare a comprarlo al supermercato.

Tutto normale? Chissà. Di sicuro in Italia ci sono situazioni di irregolarità ben più gravi, ma non si può nascondere come anche le più basilari norme di sicurezza vengano ignorate, in agricoltura come in altri settori. La morte di Michele Traglia, 41enne di San Giacomo, che si è ribaltato col trattore durante la raccolta delle olive a Guglionesi il 30 ottobre scorso, evidentemente non è servita a nulla.

‘The show must go on’ cantavano i Queen, ma qui di spettacolo non ce n’è. C’è invece un territorio in cui la sicurezza sul posto di lavoro è demandata a imprenditori con maggiore coscienza di altri, a lavoratori che sanno evitare i pericoli, o più semplicemente al caso.

In Molise ci si ammazza di lavoro, e nessuno sembra rendersene conto. Quando un padre di famiglia a 67 anni precipita da un tetto mentre lavora in un cantiere, come è capitato a settembre a Francesco Di Furia alle Isole Tremiti, non ci si può non domandare se a quell’età un uomo debba ancora svolgere mansioni così rischiose.

Ma succede anche a chi è più giovane, come Massimo Roberti, 40enne abruzzese morto a Mafalda nell’aprile scorso precipitando da un tetto. Elenco incompleto ma terrificante degli ultimi mesi di morti bianche.

Perché le domande da porsi sono tante: in che condizioni lavorano gli operai, i manovali, i carpentieri? Oppure i coltivatori diretti e gli artigiani? Utilizzano gli strumenti che garantiscono la loro sicurezza? Se non rispettano le norme, perché lo fanno? Sono a conoscenza delle normative? Sono adeguatamente formati? E soprattutto: dove sono i controlli? Quanto sono efficaci e frequenti?

Ancora una volta si preferisce chiudere un occhio, anzi tutti e due. Per riaprirli davanti alla prossima tragedia che quasi non fa più notizia. I sindacati, da parte loro, prima o dopo snoccioleranno freddi numeri sulle morti bianche.

Come se la vita di queste persone valesse solo per un grafico su un documento. D’altra parte quando la disoccupazione è così alta, specie tra i giovani, il rischio concreto è proprio quello di accettare dei compromessi. Sugli orari di lavoro, i turni, il salario. Persino sulla sicurezza, coi risultati che le cronache raccontano.