Dopo le aggressioni in pronto soccorso

Medici e pazienti. “Più comprensione verso chi lavora per farci stare bene”. Pronto Soccorso ancora senza guardia armata

Alberto Sco (pseudonimo, ma non troppo) è un giovane medico che ci ha inviato una bellissima lettera.

Eccola, integrale:

È capitato anche a me, purtroppo abbastanza spesso, di trovarmi “dall’altra parte” (parafrasando il titolo di una raccolta di testimonianze di professionisti della salute, a loro volta ammalati). Per non dire delle volte che ho frequentato gli ospedali da “utente” – come si dice oggi, un po’ algidamente – o da familiare di degenti.  Si è trattato di un’esperienza preziosa: da un lato la possibilità di sperimentare, sulla propria pelle, una quantità inimmaginabile di bisogni essenziali e il senso estremo di nudità, di fragilità e di desiderio di accudimento; dall’altro, l’occhio privilegiato per osservare la galassia degli operatori che ruota attorno al posto letto, finalmente da nuovi punti di vista.

Mescolato tra la gente in attesa, all’ingresso dei reparti, con foglietti bianchi e rossi e impegnative, borsine di oggetti personali e documenti cartacei, ho udito una variopinta fantasia di commenti e invettive, da “Non capisco questa storia degli orari di visita, io lavoro!” a “Se però ti dicono a mezzogiorno, dev’essere a mezzogiorno!”, da “Ma è mai possibile perdere una mattina in attesa?” a “Qui nessuno riesce a dirti niente”. Ho taciuto, ma avrei voluto prendere per mano una qualunque, di quelle persone, e accompagnarla con calma lungo la giornata lavorativa del medico, dell’infermiere o dell’operatore socio-sanitario.

Siamo d’accordo che si tratta di professioni estremamente delicate, a diretto contatto con il dolore fisico e morale delle persone, e che quindi siano inammissibili scortesie, intoppi e soprattutto errori. Ma siamo sicuri di non trovarci, anche in questo caso, davanti ad una nuova forma di “populismo”? Basterebbe avere il coraggio, specularmente, di trovarsi «dall’altra parte”.

Proviamo a domandare, a bruciapelo: “Te la sentiresti di studiare per decenni, e di continuare a farlo con modalità differenti per il resto della tua vita, di andare poi a svolgere una professione che impegnerà gran parte delle tue giornate, notti e festivi compresi? Una professione con retribuzione spesso assolutamente inadeguata, nella quale il minimo errore non è ammissibile ed è anzi perseguibile penalmente anche in assenza di dolo, e infine davanti alla quale chiunque si sente autorizzato a reclamare diritti, interferire pur non possedendo alcuna competenza specifica in merito, ritenere tutto quanto dovuto? Una professione che sta perdendo qualunque appeal e rispetto da parte della società, e che in talune realtà mette a rischio anche l’incolumità fisica?”.

In medicina il cosiddetto “tempo di cura” è una realtà imprescindibile: non è sufficiente applicare protocolli e linee guida. I malati hanno bisogno di parole, di spiegazioni, di rassicurazioni. Di empatia. Però la verità, signori miei, è che di questo tempo ce n’è sempre meno. E pretendere che lo si trovi è un’utopia. Se facciamo una proiezione verso il 2025 sul numero di specialisti in carico al servizio sanitario nazionale, e confrontiamo le uscite pensionistiche previste (incluso l’effetto “Quota 100”) con i nuovi ingressi stimati, scopriamo che mancheranno più di quattromila medici dell’emergenza-urgenza, più di tremila e trecento pediatri, quasi duemila specialisti in Medicina Interna.

Già oggi un medico che mette piede in corsia non riesce ad andare in bagno prima del timbro del cartellino in uscita. E la sua vita lavorativa, se ha un minimo di dignità professionale, non può che continuare a casa: le telefonate, i dubbi e i timori per quanto operato in fretta, le incertezze diagnostiche, le perplessità organizzative, il disagio per le incomprensioni con colleghi e cittadini. Penso alle famiglie dei professionisti della salute, a chi oltretutto è femmina e ha figli piccoli: perché, checché se ne dica, la parità di genere sarà sempre un argomento di cui farsi belli, se non si porrà in essere davvero la caduta delle barriere che si frappongono tra uomo e donna.

Le professioni sanitarie sono in un momento di criticità estrema e, se non si prenderanno adeguati provvedimenti, saremo tutti noi a pagarne il conto. In termini di salute, alla faccia di qualunque dettame costituzionale e di qualunque imperativo etico.

Nel frattempo, abbraccio con affetto, stima e riconoscenza l’immensa organizzazione che, dai vertici organizzativi all’ultimo lavoratore in trincea, garantisce ogni giorno, nella mia regione, standard di cura eccellenti e improntati a efficacia, efficienza ed equità, spesso a prezzo di fatiche immense e commoventi sacrifici per la più corretta razionalizzazione e gestione di risorse e disponibilità. Imponiamoci di avere comprensione per chi lavora per farci stare bene. Ne abbiamo bisogno tutti“.

 

Una lettera o meglio, una riflessione, scritta il giorno dopo l’ennesima aggressione avvenuta in Pronto soccorso. sabato sera una infermiera e il medico di guardia sono stati minacciati e insultati pesantemente da un paziente che pretendeva di entrare immediatamente per la visita, malgrado il suo caso non fosse ritenuto prioritario. Nel reparto di emergenza del San Timoteo è arrivata la polizia, chiamata dal dottore che ha presentato una denuncia specifica in Commissariato. La vicenda è oggetto di una indagine e a breve potrà esserci il rinvio a giudizio per  l’uomo protagonista del raptus di insulti e minacce in corsia. Intanto però l’estate è entrata nel vivo, i movimenti “turistici” sono già iniziati e il volume di richieste in pronto Soccorso comincia ad aumentare, specialmente nel fine settimana. Eppure la guardia armata richiesta dal personale, che è ridotto all’osso e sottoposto a turni massacranti, non c’è. La Asrem ha garantito che “qualcosa si farà, in tal senso, per la sicurezza del personale”. Sperando che avvenga in tempi ragionevoli. 

Più informazioni