Senso/73

Giovani Neet: i giovani che (non) crescono senza desideri

I giovani che non studiano e non lavorano, in Italia oltre 2 milioni, incarnano lo spettro di una società adulta (politica) che rivela, attraverso i comportamenti sintomatici di questi giovani, la propria incapacità a prendersi cura dei più vulnerabili, affetta essa stessa da un patologico assetto di sottoutilizzo del capitale umano giovanile ad alto potenziale.

Le statistiche nazionali stimano in oltre 2,2 milioni i giovani italiani che non studiano, non lavorano e non si aggiornano; giovani che rifiutano qualsiasi forma di educazione, di inserimento sociale e di lavoro. Sono i cosiddetti NEET (acronimo di Not in Education, Employment or Training) che, secondo i dati di un sondaggio ad hoc dell’Università Cattolica svolto nel 2017 (Rapporto giovani 2017 dell’Istituto Giuseppe Toniolo di Studi Superiori), in Italia sono oltre 2 milioni, con la regione Lombardia (incredibilmente) in vetta con oltre il 16% di giovani (239mila) che non partecipano a percorsi di istruzione o formazione e nemmeno stanno svolgendo un’attività lavorativa.

Un fenomeno diffuso anche nella nostra Regione e purtroppo in crescita, stando a quanto denunciano non soltanto i sociologi e la statistica nazionale, ma anche i professionisti psicologi, psichiatri, educatori che accolgono con sempre maggiore frequenza giovani portatori di questa diffusa forma di disagio.

Uno di questi ragazzi mi diceva che questo accade perché l’Italia è un Paese per vecchi mestieri e i giovani sono tagliati fuori dal loro tempo, costretti a recarsi all’estero. E questa probabilmente è una delle cause principali: l’assenza di possibilità occupazionali; la carenza di politiche attive volte all’empowerment dei giovani e che li aiutino a trovare il proprio posto nei processi di sviluppo solido e competitivo del Paese; l’assenza di efficaci programmi di orientamento scolastico-professionale nelle scuole secondarie. Non a caso, durante la crisi economica del 2008 l’incidenza del fenomeno è salita sensibilmente di 2,7 punti percentuali in Europa, mentre in Italia è cresciuta di 7,4 punti.

 

Ma queste considerazioni rischiano di spostare la nostra attenzione all’esterno, su fattori ambientali, socio-economici, che il singolo individuo non può controllare, e talvolta questo spostamento del locus of control (che si riferisce alla percezione individuale della possibilità di gestione di un dato problema) all’esterno è proprio la fonte principale del disadattamento giovanile.

In Italia, infatti, il giovane NEET può avere dai 15 ai 29 anni, può essere un neolaureato con alta motivazione e alte potenzialità, che sta attivamente cercando un lavoro in linea con le proprie aspettative, prima che si riallinei “al ribasso” con ciò che il mercato reale offre; oppure può essere un giovane uscito precocemente dagli studi, molto spesso già durante il primo anno di università, scivolato in una spirale di marginalità e demotivazione. Spesso lo troviamo rinchiuso nella sua camera, con gli amici delle scuole superiori che sono andati via a studiare altrove, e lui o lei che si ritrova a casa, isolato, forse in una stanza a giocare o a chattare per allontanare la noia e i “cattivi pensieri”. È anche in questa condizione che si annida lo spettro dell’Hikikomori di cui ho parlato in un recente articolo.

 

Ma possiamo incontrare anche quel giovane che non ha un impiego o un impegno di studio per scelta, perché ha voluto prendersi “del tempo per pensare” o per sperimentare qualche attività (da quella sportiva, al volontariato, al corso di formazione breve) prima di definire il proprio progetto di vita. Questi sono giovani lasciati ai margini già da qualche anno prima di finire nella spirale della demotivazione e della confusione rispetto al proprio progetto: essi incarnano lo spettro di una società adulta (politica) che rivela, attraverso i comportamenti sintomatici di questi giovani, la propria incapacità a prendersi cura dei più vulnerabili, affetta essa stessa da un patologico assetto di sottoutilizzo del capitale umano giovanile ad alto potenziale.

 

Le politiche sociali in Italia non sono in grado di assicurare ai nostri giovani adeguate competenze per il passaggio alla dimensione lavorativa e quindi all’indipendenza economica ma soprattutto, quel che manca prima, è la garanzia di esperienze formative che li appassionino alla vita, che li facciano innamorare del futuro, che li educhino alla scoperta del proprio potenziale di sviluppo e alla “cultura del sogno”. In altri termini, nella nostra società, a partire dalla Scuola e dalla famiglia, mancano le competenze a stimolare nei nostri giovani il “desiderio”.

 

Secondo i dati del Rapporto giovani 2017, meno del 40% dei giovani intervistati (in età 20-35 anni) considera la scuola utile per trovare più facilmente un’occupazione e meno del 33% ha trovato nella scuola conoscenze e informazioni utili per capire come funziona il mondo del lavoro. La denuncia di questi dati è chiara: negli anni della formazione che precede lo svincolo dalla famiglia di origine, il giovane spesso non trova nella scuola il luogo adatto per veder nascere il “desiderio” dentro di sé.

E tra i più fortunati, tra quelli cioè che hanno seguito la propria “visione”, iscrivendosi prima alla facoltà o al corso di professionalizzazione più corrispondente alla proprie motivazioni e riuscendo poi a trovare un’occupazione, il 44% si adatta a svolgere un’attività poco o per nulla coerente con la propria formazione. Come a dire, anche la resilienza individuale spesso va a scontrarsi con una società adulta “castrante” – per utilizzare una metafora psicoanalitica utile a connotare emozionalmente il taglio, l’amputazione inferta al desiderio nato o nascente dei giovani.

 

Queste considerazioni dovrebbero destare allarme sociale e preoccupazione soprattutto nella Politica nazionale e locale; trascuriamo infatti l’importante funzione di un accompagnamento consapevole da parte della comunità adulta nelle fasi di transizione: l’uscita dalla casa dei genitori, il completamento del percorso educativo, l’ingresso nel mercato del lavoro, la formazione di una famiglia, l’assunzione di responsabilità verso i figli.

Abbiamo lasciato che questo percorso diventasse sempre più accidentato, personalizzato e imprevedibile. Pensiamo ad esempio all’organizzazione del sistema di welfare delle nostre regioni, molto sbilanciato sugli anziani con scarsi investimenti, se non completamente assenti, sulle politiche giovanili.

Con un fenomeno che porta stime statistiche così chiare e importanti, non possiamo trascurare che il disagio di questi giovani ha cause strutturali nel modo in cui sono organizzate la società, i servizi, le politiche sociali e in particolare giovanili, oltre che l’economia.

 

Sarebbe quindi il caso di agire ripartendo dalla base, innanzitutto, ricreando un contesto culturale che sia in grado di stimolare nei giovani il desiderio di sognare, il desiderio della propria “visione”: da lì potrà derivare la motivazione a studiare, lavorare e vivere appieno la propria individualità, seguendo percorsi che risultino in linea con la propria profonda motivazione.

Il contributo degli psicologi nel contesto scolastico può essere da questo punto di vista fondamentale, per implementare le competenze degli adulti a svolgere una funzione di guida e facilitazione di questo processo di sviluppo. Ma occorrerà prestare attenzione alle funzioni educative (di genitori e insegnanti) sin dalla scuola elementare. Occorrerebbe, infatti, sin dalla formazione primaria riconcepire il desiderio come la luce per una pianta: essa potrà crescere rigogliosa non soltanto contando sulle risorse del terreno in cui è stata piantata (le politiche economiche), non soltanto attingendo ai propri apporti genetici (la resilienza individuale), ma anche potendo orientare il proprio sviluppo verso una fonte di luce. Il termine de-siderio infatti allude metaforicamente all’anelito che ha caratterizzato da sempre l’essere umano ad orientarsi lungo il proprio processo di individuazione (Jung) puntando agli astri, alle stelle (da sidus, sideris, latino): fonti inesauribili di sogni, visioni, tensione di sviluppo, spiritualità.

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