Tradizioni millenarie

Morte di un maiale: l’antico rito si ripete ancora tra folclore e bisogno

In alcune contrade del capoluogo e in molti paesi della provincia è ancora viva la cultura della macellazione del maiale che avviene soprattutto a gennaio. Non è "soltanto una festa ma rappresenta il frutto di un lavoro attento e accurato che viene operato su questo animale che è elemento fondamentale della sussistenza familiare"

Tra le tradizioni che ancora si coltivano in alcune contrade del capoluogo ma soprattutto in moltissimi paesi della provincia di Campobasso c’è quella dell’uccisione del maiale, seguita dalla lavorazione delle carni.

“Del maiale non si butta via niente” dicono le donne impegnate proprio nella fase successiva all’uccisione (che solitamente spetta agli uomini). Nicola e Maria sono i padroni di casa, una bella costruzione in campagna color nocciola, con tanto verde attorno e una piccola azienda di famiglia dove allevano un maiale, polli, conigli e “fino a qualche tempo anche due mucche”, racconta la signora Maria, 80 anni con la tempra di una 30enne. Piccolina, magrissima, occhi vispi e mani consumate dal lavoro nei campi prima e “da quello dietro ai nipoti oggi” dice ridendo.

Intelligenza sopraffina, sa bene che oggi parlare dell’uccisione del maiale potrebbe ferire la sensibilità di animalisti e associazioni varie ma lei sottolinea che questa è una “tradizione che si tramanda da lontano, perché quando io ero bambina ammazzare il maiale era sì un momento per stare insieme ma soprattutto era il momento di raccogliere i frutti di mesi trascorsi ad allevare il bestiame, a nutrirlo alzandoti all’alba e puntualmente durante il giorno, a curarlo nelle pulizie perché se il maiale stava bene la sua carne era buona e abbondante”.

Stessa cosa vale oggi. Maria assieme a Nicola continua il suo rito “perché la carne tua è sempre la carne tua”. E del rito che in questi giorni si è ripetuto a casa sua dice “anche se i nipoti, ancora piccolini, non vogliono assistere e piangono tutto il tempo perché pig è diventato uno di famiglia, al momentaneo dispiacere si sostituisce l’assaggio dei ‘cicoli’ in padella e quello delle costine nel sugo, e tutto passa. Capiscono che purtroppo la catena della vita è così”.

Arriva il signor Nicola, grande e grosso, calvo ma col baffo, grembiule allacciato e mani che spaventano solo a guardarle. Bando alle ciance, ascoltando la conversazione, sottolinea: “Ammazzare il maiale oggi per molti è un rito o una tradizione ma vi assicuro che è soprattutto un bisogno. Per noi questa carne è una delle più importanti riserve alimentari perché si conserva a lungo con i dovuti metodi e le tecniche infallibili consolidate nel tempo”.

All’osso: l’uccisione del maiale rappresenta ancora oggi una festa per grandi e piccini, la sera è l’occasione per mangiare assieme, sorseggiare un buon bicchiere di vino rosso davanti al camino, ma è anche la necessità di quantificare il lavoro di allevamento fatto per circa un anno.

“La macellazione e la lavorazione della carne dura anche tre giorni” precisa Nicola e lasciandosi andare ai ricordi rammenta “una cosa che oggi non si fa più: il sanguinaccio”. “Quando eravamo giovani – spiega – le donne lo raccoglievano durante l’uccisione e lo mettevano a bollire con uva passa, vino cotto, noci, bucce d’agrumi, fino a quando non diventava di consistenza cremosa da spalmare sul pane. Che bontà!”.

Maria lo sveglia dai ricordi e riprende la spiegazione: “Fatta la raschiatura con coltelli affilatissimi e acqua bollente, il maiale viene issato in aria con un attrezzo di legno inserito in alcune incisioni fatte sulle zampe posteriori. Per la macellazione però ci vogliono solo mani esperte che sanno come operare sezionando il corpo in quattro parti”.

Ogni pezzo di carne ha la sua precisa destinazione: la selezione è accuratissima e la carne disossata è destinata a salsiccia o soppressate. E “a fine estate si assaggiano pancetta e coppe mentre in autunno è il momento delle spalle e poi del prosciutto” spiega.

Insomma, come dire, il re della tavola resta ancora il maiale perché se “c’hai il maiale non sei mai a digiuno”.