Campobasso

Le madri dei tossicodipendenti: “La droga? Cavolo, la scoprono adesso! Eppure noi lottiamo sole da anni”

Genitori in trincea denunciano la carenza di servizi adeguati per far fronte all’emergenza. “Al SerD oltre al dirigente costretto a fare l’ambulante su 5 sedi territoriali c’è un solo medico per 1300 utenti. Non ci sono assistenti sociali. Gli psicologi restano chiusi nelle loro stanze e non conoscono i ragazzi. L’overdose? Qualche ora per stabilizzare il malcapitato in ospedale e lo rispediscono a casa, senza cure né niente. E manca una seria politica di sostegno alla famiglie. Siamo abbandonati a noi stessi e alla sorte dei nostri figli. La repressione, senza queste cose alla base, è fallimentare”.

“Quando sui giornali e in tv abbiamo iniziato a leggere e ascoltare che improvvisamente le coscienze del Molise si erano svegliate e che sempre improvvisamente quelle stesse coscienze, fino a qualche tempo fa dormienti, avevano scoperto un problema chiamato droga, io ed altre mamme che vivono il problema sulla propria pelle abbiamo tirato un sospiro sollievo. Perché abbiamo incautamente creduto che finalmente qualcuno venisse in nostro aiuto”.

La voce di Gianna, nome inventato, è un sussurro paradossalmente urlato. Stanco, trascinato, ma nel suo tono non c’è traccia di resa. Gianna è la mamma di Antonio: due nomi di fantasia per una storia intrisa di disillusioni, menzogne, denunce, dolore. E droga.

Antonio ha vissuto la tossicodipendenza, “malattia recidivante”, puntualizza Gianna  e spiegherà poi perché svelando che “molto medici neanche lo sanno”. E Antonio ha vissuto i suoi anni migliori per la “roba”: il suo unico pensiero, dal momento del risveglio, era procurarsi la dose, iniettarsela “in vena perché fa più effetto” e poi trascinarsi nell’oblio dell’estasi effimera. Prima di sprofondare di nuovo nell’abisso della depressione, dell’astinenza che ti divora la mente e il resto.

“Sono anni che chiedo aiuto: inutilmente. Mio figlio ed altri figli di mamme come me – Gianna parla anche a nome loro – è un tossicodipendente: non c’è supporto sociale per questi ragazzi se non un ricovero coatto (che fra l’altro non è neanche ricovero perché superata l’overdose te lo rispediscono a casa e fatti tuoi…), se non un suo ingresso in una comunità. Ma lo Stato, le sue leggi, non la considerano una malattia vera e propria che come tale ha bisogno di essere curata, seguita, affiancata da esperti capaci di aiutare il ragazzo e la sua famiglia. No, Antonio – mi rispondono – è maggiorenne! Che è come dire che è libero di farsi del male, di fare del male alla sua famiglia, di avvelenarsi il corpo giorno dopo giorno speso alla ricerca della dose e dei 20 euro di cui necessita per comprarla. Forze dell’ordine, medici, SerD, assistenti sociali: ho parlato e parlo con tutti. E oggi cosa leggo? Nient’altro che di denunce, arresti e segnalazioni. Non sto a dire che non debbano esserci. Ma poi? Cosa succede? Che fine fanno questi ragazzotti sempre più giovani? E le loro famiglie? Ve lo dico io: vengono abbandonati. Al SerD di Campobasso oltre al dirigente Scioli costretto a fare l’ambulante nelle cinque sedi territoriali, c’è una sola dottoressa per 1300 assistiti. Ma in nome di Dio, mi dite come fa un solo medico a far fronte ad una tale mole di lavoro che è parimenti la missione di altri medici: salvare vite umane? E gli assistenti sociali a Campobasso? Non ce ne sono. Gli psicologi? Rintanati nei loro uffici non sanno neanche che faccia hanno questi ragazzi costretti a bussare a quella porta”.

Gianna di tanto in tanto si interrompe, deglutisce rabbia e foga di parlare. Paura e ansia di dover continuamente lottare “con mio figlio questa malattia che si chiama tossicodipendenza”. Gianna, provando a sdrammatizzare, racconta che ormai ne sa più lei di un pusher.

Quante notti ha girovagato per le strade di Campobasso con la sua Fiat Panda tutta scassata, alla ricerca del figlio, spaventata dalla possibilità che potesse beccarlo con un ago nel braccio o che potesse ricascarci dopo un periodo di comunità. Quei cinque minuti di ritardo “quando tuo figlio prova a tornare alla normalità dopo la disintossicazione, per te madre, sono un’infinità. Ogni ombra sul pianerottolo la osservi dallo spioncino e aspetti di accertarti che sia lui. In quei momenti di stabilizzazione della malattia o di regressione, sei solo. Come un cane. Sei sola tu madre, padre, figlio o figlia che sia”.

Gianna crede poco nella repressione ma la “prevenzione, di cui molti si riempiono la bocca, io a tutt’oggi non la vedo”.

“Vedo invece giudizio facile anche rispetto a famiglie tormentate come la mia, ma chi parla non sa che anche la nostra era una famiglia come tante, con una serenità di fondo che la quotidianità di Antonio ha distrutto. Oggi non c’è più niente. Solo dolore, paura”.

“Antonio era una ragazzo come tanti, espansivo, intelligente: lo studio, la passione per lo sport. Poi, nel periodo in cui frequentava le scuole superiori, è cambiato: stava sempre in silenzio, triste. Mi sono accorta che qualcosa non andava quando ho scoperto che mentiva. Ho scoperto gli spinelli e quindi lo sballo. E la delinquenza spicciola per procurarsela. È entrato in un vortice che ci ha risucchiato, nel divenire degli anni, un po’ tutti. E posso affermare senza paura di sbagliare che denunciarlo non è servito. Né è servito alle famiglie: soltanto soldi spesi per pagare legittimamente gli avvocati e quindi un buco ulteriore nel budget familiare pauroso che va ad appesantire un bilancio già messo in crisi dall’urgenza di porre rimedio ad una situazione che sfugge di mano come la tossicodipendenza del proprio figlio. Io per mio figlio mi sono improvvisata medico, infermiera e quando al SerD non volevano consegnarmi  i 30 grammi di metadone previsti per legge perché stava in astinenza ho imparato anche a fargli da avvocato rispetto all’incompetenza che spesso regna sovrana in questi posti così delicati. Mio figlio aveva un programma terapeutico da seguire e il signor ‘non so chi’ quella volta non voleva dargli il metadone. Una madre prima di me fu costretta a comprare l’eroina”.

“Oggi perché dico queste cose? Perché sono l’altra faccia della medaglia. Perché basta con le chiacchiere. Per sollevare i ragazzi consumatori di sostanze ci vogliono servizi e progetti seri di reinserimento. Lo si faccia cominciando a capire che la tossicodipendenza è una malattia recidivante, i tassi di recidiva sono compresi tra il 40 e il 60% nell’anno che segue la dimissione da un tipico programma di trattamento per la tossicodipendenza, con la stragrande maggioranza dei casi che si verificano entro i primi 30 giorni. E a dirlo è l’Organizzazione mondiale della sanità. Ci vogliono dei professionisti a sostenere questi ragazzi e le loro famiglie. E infine i progetti di cui tanti si riempiono la bocca e mi riferisco a quelli per il reinserimento lavorativo: tutte balle! Nessuno di questi ragazzi ha trovato nuova linfa, mai nessuno di loro ha avvertito in questa sottospecie di progetti quel senso di utilità di cui hanno bisogno. Sono stati impiegati come rifiuti e senza alcuna prospettiva. Io, madre in trincea, so per certo che la repressione è fallimentare se alla base non c’è un motore che si chiama sostegno alle famiglie e servizi adeguati. Sono questi gli unici strumenti che permetteranno a noi genitori di poter abbracciare i nostri figli senza più paura e a questi figli di vedere un solo, dannato ma meritato motivo per smettere e riappropriarsi della vita”.

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