Senso/58

Finché morte non li separi. Analisi delle violenze di genere

In Italia, vedi il Ddl Pillon, si sta consumando il tentativo di ripristinare un ordine sociale basato su stereotipi di genere e relazioni di potere diseguali. È forte dunque la matrice culturale nelle situazioni di violenza di genere.

Si tratta spesso di uomini provati dal rifiuto o dalla separazione, dalla rottura di un progetto o dal potere di una fantasia di rapporto o di famiglia che oggi li lascia disillusi, soli, nell’angoscia che li spinge, spesso nella disperazione, a tentare di ricucire le lacerazioni di una relazione fallita o mai iniziata. La disperazione si trasforma in rabbia, quella cieca della non accettazione, quella che spinge al controllo ossessivo del partner (e spesso dei figli) che un tempo avevano amato o desiderato secondo modalità, però, che hanno trasformato l’attaccamento in una simbiosi infestata da fantasmi ed emozioni intrusive difficili da governare (paure, gelosia, sospettosità ecc.). In questi luoghi, il passo che separa l’ossessione dall’impulso ad agire comportamenti controllanti, predatori, violenti e distruttivi è davvero brevissimo: “perché non posso vivere senza di lei” o perché è “per il bene dei figli” – questo si ripetono spesso.

Malorni Nicola

 

L’incapacità ad accettare l’indipendenza del partner e la sua autonomia di pensiero, il suo rifiuto o a volte semplicemente il suo differente stile di vita, e poi la separazione coniugale e il fallimento di un progetto di famiglia unita li trasforma in potenziali criminali. Nei casi più gravi – lo abbiamo visto – lo stalker reagisce fino a commettere un duplice omicidio: prima ammazza il partner rifiutante e poi se stesso perché solo la morte potrebbe evidentemente – nelle fantasie inconsce – avere il potere di separare o – allo stesso tempo – di unire per sempre. Per sempre insieme, finché morte non li separi” – sembra ripetere il fantasma che infesta la mente di questi uomini violenti e fragili.

 

Ma siamo certi che si tratti davvero di una problematica soltanto individuale di qualche migliaia di disperati?

A stimolare questa domanda è il dato che, nonostante l’introduzione nel nostro Paese del reato di stalking e le azioni di sensibilizzazione e prevenzione a più livelli, l’incidenza delle violenze contro le donne non sembra subire flessioni, anzi sembra peggiorare. Nei primi sei mesi del 2018, infatti, sono state uccise 44 donne in Italia, il 30% in più rispetto allo stesso periodo del 2017. Una donna uccisa ogni 60 ore. Spesso le donne in Italia sono vittime di armi da taglio (40%), armi da fuoco (13%) e nel 18% dei casi sono ammazzate per strangolamento, perlopiù dall’ex partner (41%).

Eppure, la nostra è l’epoca in cui da oltre 30 anni è entrata in vigore la legge sul divorzio e si sta (anche se faticosamente) tentando di arrivare alla parità di genere, ossia ad una condizione in cui la libertà del partner, e del genere femminile in particolare, possa essere vissuta non più come una minaccia ma come una risorsa. È un percorso difficile e lungo durante il quale abbiamo incrociato anche estremizzazioni come la sostituzione dei “sacri legami” con la liquidità affettiva e sessuale, dove i rapporti tra uomini e donne risultano spesso limitati nel tempo e nella progettualità, le coppie “scoppiano” facilmente e le possibilità di scelta e cambiamento del partner sono assai elevate.

 

Ho provato a spostare il focus dalle considerazioni più abituali sulle psicopatologie individuali ad una analisi di ciò che accade al Paese Italia sul piano legislativo. Il mio lavoro di analista mi ha aiutato a comprendere come spesso siano proprio le crisi e i sintomi ad arricchire la personalità e a far evolvere gli esseri umani. È possibile che questo stia accadendo anche alla nostra società?

Ad esempio, accade nel nostro Paese che decenni di giurisprudenza saggia, intelligente, consapevole dei bisogni emotivi e sociali della donna e dei figli, rischiano di essere spazzati via da un’idea “rivoluzionaria” come quella proposta in quel discusso disegno di legge, il n. 735/2018, noto anche come Ddl “Pillon”.

Spesso sono proprio gli atti mancati, le dimenticanze, le rimozioni, o i gesti apparentemente incongrui o inattesi ad attirare la mia attenzione nella stanza d’analisi con i pazienti. Ebbene, allo stesso modo ho notato in questo periodo come la più ampia rappresentanza politica, non solo nazionale ma anche locale, non abbia ancora espresso esplicitamente e pubblicamente un pensiero chiaro sull’argomento, mentre in centinaia tra cittadini e associazioni di tutta Italia si sono recati in piazza a Roma a protestare contro il “Pillon”. È come trovarsi di fronte ad un individuo (il Paese Italia) che dice di star bene, di essere molto sereno, mentre il suo corpo, nella completa inconsapevolezza, esprime con movimenti incontrollati una forte agitazione.

Ebbene, il testo (e il lessico) del Ddl in questione può aiutarci a comprendere cosa stia accadendo in questo periodo in Italia. Esso fa riferimento, infatti, a costrutti che sembrano voler negare proprio la separazione e le differenze tra gli individui e tra le generazioni, nonché la libertà di espressione dei sentimenti delle famiglie, in particolare di donne e bambini: il disegno prevede infatti la mediazione familiare obbligatoria quando ci sono figli (come a dire “occorre andare d’accordo sempre, nonostante tutto, comunque”), i tempi di affido dei figli devono essere paritari e in equilibrio tra i due genitori, perfettamente suddivisi con minimo 12 giorni di permanenza al mese presso le abitazioni di entrambi i genitori (“l’esistenza dei figli deve essere letteralmente divisa a metà, non ci possono essere differenze, scarti, vuoti tra l’uomo e la donna”), l’eliminazione dell’assegno di mantenimento e sostituzione con il mantenimento diretto (“non esistono differenze tra uomo e donna, ognuno può provvedere direttamente alla cura della prole senza necessità di sostegno economico da parte dell’ex coniuge”) e, infine, la lotta alla cosiddetta (non diagnosticabile) “alienazione genitoriale” (“quando un bambino rifiuta uno dei genitori”  – sembra dire la proposta – “è molto probabilmente condizionato dall’altro, molto spesso dalla madre”).

 

Verifichiamo in questo modo come, al di là delle dinamiche che possono colpire una specifica coppia e/o singoli individui, anche nella dimensione collettiva, esemplificata dal lessico utilizzato nel testo del ddl, la separazione sembra poter essere gestita unicamente in questo modo: non può esserci separazione né differenza uomo/donna né accoglienza di sentimenti rifiutanti/ostili (anche se protettivi) della prole o della donna nei confronti dell’uomo. Tutto questo è manifestazione di una liquidità tesa a dissolvere ogni forma di nerezza (si parla infatti di “affidamento perfetto”) nelle relazioni uomo/donna, adulto/bambino, che nel tentativo di annullare conflitti e differenze (“finché morte non li separi”), paradossalmente fa mutare la vita affettiva di queste famiglie in un inferno.

 

Tutto questo agita la dimensione emozionale ed affettiva del nostro Paese, mentre una grande porzione della Coscienza collettiva (politica in primis) sembra distratta da altro.

In Italia le madri, soprattutto al Sud, spesso ancora non lavorano o non guadagnano come il partner, perché devono occuparsi dei figli: la bigenitorialità perfetta con il mantenimento diretto di entrambi i genitori è quindi praticamente impossibile per moltissime famiglie. Molti padri, in molte zone d’Italia, limitano ancora l’emancipazione economica delle donne fino a vere e proprie forme di violenza economica.

Questa violenta deriva maschilista e adultocentrica che rischia di abbattersi sul Legislatore italiano, se a livello locale e nazionale ha incontrato la disattenzione di molti, non è passata di certo inosservata in Europa. Lo scorso 22 ottobre, le relatrici speciali delle Nazioni Unite sulla violenza e la discriminazione contro le donne, Dubravka Šimonović e Ivana Radačić, hanno inviato una lettera al governo italiano prendendo posizione a favore degli spazi femministi e contro il disegno di legge 735.

Nella lettera, resa pubblica dallo Huffington Post, si dice che le modifiche che sarebbero introdotte dal ddl in materia di separazione e affido in Italia non tutelano le donne e i bambini che subiscono violenza in famiglia. In caso di approvazione si porterebbe l’Italia ad «una grave regressione che alimenterebbe la disuguaglianza di genere».

Le relatrici delle Nazioni Unite hanno ribadito, inoltre, che la mediazione obbligatoria può «essere molto dannosa se applicata ai casi di violenza domestica» e che tale imposizione viola la “Convenzione di Istanbul” che l’Italia ha sottoscritto nel 2003. Il ddl istituzionalizzerebbe la violenza (anche quella economica) all’interno della famiglia e anche da parte delle istituzioni, sollevando i tribunali dai loro compiti e occultando la violenza per delegata giustizia, o se si preferisce, per omissione.

 

Tutto ciò ci informa di come in Italia, mentre la politica è impegnata a ricucire gli strappi delle coperte del passato o a investire in progetti di lifting grandiosi per le economie locali, si sta consumando il tentativo di ripristinare un ordine sociale basato su stereotipi di genere e relazioni di potere diseguali e contrarie agli obblighi internazionali in materia di diritti umani.

La violenza di genere non riguarda l’uomo violento ma la stessa matrice culturale che lo ha concepito e partorito. E spesso è il risultato di una difficoltà a trasformare in pensieri (coscienti) emozioni di paura e di rabbia.

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