Senso/51

Si tagliano per soffrire: il fenomeno del cutting tra gli adolescenti

Aumentano casi di autolesionismo tra gli adolescenti. Hanno tra i 12 e i 18 anni e si tagliano, incidendo ferite sulla pelle. Non è una moda ma il sintomo di una sofferenza da non sottovalutare. Si tratta di un comportamento capace di spostare concretamente il dolore dell’anima sul corpo.

Aumentano casi di autolesionismo tra gli adolescenti. Hanno tra i 12 e i 18 anni e si tagliano, incidono ferite sulla pelle, sulle gambe e sulle braccia con lamette, coltelli affilati, temperini, punte di vetro, lattine usate. Si tratta di un fenomeno noto agli psicologi con il termine inglese “cutting”, una forma di autolesionismo che comprende una vasta gamma di comportamenti tra cui soprattutto il taglio, ma anche piccole ustioni, graffi ed ematomi e che comincia a diventare un fenomeno significativo in tutta Italia. Anche in Molise gli psicologi registrano casi.

Talvolta si fermano ad un singolo episodio ma più frequentemente diventa un’abitudine: in ogni caso, l’autolesionismo giovanile è un fenomeno diffuso, in crescita, da non sottovalutare, anch’esso prodotto di una società che chiede ai ragazzi di non comunicare i propri stati d’animo, di veicolare altrove, fuori dalle relazioni significative, le proprie sofferenze o inquietudini; non si concede più tempo all’ascolto necessario ai bambini e ai giovani per diventare adulti consapevoli della dimensione emozionale, ascoltatori delle proprie istanze interne, interpreti autentici dei propri sogni.

 

Una ricerca condotta dall’istituto di Ortofonologia di Roma su un campione di ragazzi che si sono rivolti ai diversi sportelli d’ascolto diffusi nelle scuole romane restituisce un quadro allarmante. Il 90% è rappresentato dal genere femminile e il 70% ha dai 12 ai 14 anni. Nel 57% dei casi lo strumento più utilizzato per provocarsi lesioni è la lametta, seguita dalle forbici (21%), il taglierino (11%), la lama del temperino (7%) e il coltello (4%). La parte più ferita del corpo sono le braccia (53%), seguite da polsi (21%), gambe (il 17%) e pancia (il 9%). Il 19% riesce a smettere di tagliarsi, ma solo grazie all’aiuto degli psicologi. Si tratta in prevalenza di ragazzine gracili, esili, visibilmente depresse e chiuse nella loro solitudine. Secondo l’indagine dell’Istituto romano, il 17% dei “cutters” lo fa per emulare un’amica o amico o perché ha conosciuto il fenomeno tramite il web, i social network e i blog. Solitamente (58%) si confidano soltanto con amici; raramente (10%) raccontano di queste esperienze e dei vissuti associati a un insegnante e sono davvero pochissimi i ragazzi e le ragazze (l’11%) in grado di parlarne in famiglia, ma soltanto dopo essere stati scoperti dai genitori o aver avuto modo di vedere uno specialista.

Malorni Nicola

La quasi totalità dei ragazzi che noi psicologi incontriamo nei nostri studi o negli sportelli scolastici che riportano esperienze di cutting ha una storia di solitudine, incomprensione e incomunicabilità con i genitori, spesso in conflitto, separati o anch’essi problematici. Sono interessati in genere da uno stato depressivo importante che sembra spingerli a questa forma di violenza come conferma dell’essere ancora vivi e in grado di esercitare ancora un potere, un potere su quel confine col mondo che è la pelle, contenitore di emozioni che richiedono di trovare, finalmente, una visibilità e un ascolto nel mondo.

Molto pericoloso confondere queste condotte con comportamenti legati ad una moda o ad una sottocultura. La famosa scena del film di Checco Zalone “Cado dalle nubi” in cui il comico pugliese incontrava casualmente per strada un gruppo di giovani “Emo” (da “emo-core” o “Emotional hardcore”, corrente musicale nata a Washington intorno alla metà degli anni ’80), segnala in modo originale la diffusione del fenomeno tra gli adolescenti, ponendo l’attenzione sul tipico sovvertimento del linguaggio delle emozioni che il cutting esprime: essi si tagliano perché stanno male. La comicità collaudata di Zalone ci ha permesso di confrontarci con un fenomeno apparentemente illogico, incomprensibile, capace di sovvertire il rapporto tra sofferenza interna e sofferenza espressa (“no” – dice Checco al ragazzo Emo – “voi soffrite perché vi tagliate, provate a non tagliarvi e vedi che non soffrite…”), un capovolgimento di linguaggi a causa del quale rischiamo di disconoscere la segnalazione autentica del sintomo di una sofferenza che va vista, ascoltata e accolta.

 

Da una prospettiva analitica junghiana, questi comportamenti possono essere assimilati ai riti iniziatici cui venivano (e lo sono ancora in alcune culture “primitive”) sottoposti i giovani in età pubere, volti al rapido accesso (ma ritualizzato dalla comunità di appartenenza) all’età adulta: allo stesso modo, i nostri bambini e ragazzi, sempre più adultizzati dalla sottomissione a pressioni psicologiche di ogni genere, ad aspettative e richieste sempre maggiori, tendono ad accelerare i processi di crescita, manifestando molto precocemente comportamenti tipicamente adolescenziali come, ad esempio, l’uso di sostanze stupefacenti (in rapida diffusione già a partire dai 12-14 anni).

Alcuni giovani ci raccontano che dopo aver praticato questo genere di condotte provano calma, si sentono sollevati lì dove pochi istanti prima la tensione emotiva era diventata insopportabile. Queste dichiarazioni hanno una loro spiegazione psicofisiologica in quanto il dolore provocato dai tagli, grazie alla produzione di endorfine rilasciate dal cervello durante la condotta autolesionistica, sembra poter sostituire la sofferenza emozionale. Si tratta di un comportamento capace di spostare concretamente il dolore dell’anima sul corpo e questo trasferimento ha un effetto calmante. Trovo significativo da questo punto di vista che l’area scelta dai cutters sia generalmente proprio la pelle, luogo primigenio di contatto e relazione col mondo, come se affidassero il dolore dell’anima a quel luogo arcaico che ha ospitato, dai primi attimi di vita, l’incontro del neonato con la madre. Un ragazzo mi riferiva che se non avesse praticato, nei momenti più difficili, quelle condotte, sarebbe impazzito per la rabbia e l’angoscia provata. La psicoterapia, invece, aveva gradualmente sostituito il corpo come luogo di espressione di quella sofferenza indicibile con la stanza, in quanto luogo di incontro, accoglienza e ascolto.

 

In Molise, come nel resto del Paese, non è raro incontrare ragazzi come Benedetta, il cui racconto è stato affidato ad una intervista lanciata nel web: “Ho iniziato quando i miei genitori si sono separati. Soffrivo ma lo nascondevo. Volevo restare la ragazza più che perfetta di cui erano sempre andati fieri. Ma nello studio perdevo colpi, e tagliarmi mi dava sollievo. Il dolore della lama, il sangue caldo: chiudevo la porta del bagno della scuola, l’ansia scompariva e alle interrogazioni vincevo di nuovo…”. Fino ad una notte d’estate quando Benedetta nel sonno “perde il controllo” sui segni, prima occultati dalle maniche lunghe, scopre un braccio e sua madre vede per la prima volta le cicatrici. “Mi sono svegliata e l’ho sentita piangere accanto a me: pensava che quei segni fossero i buchi dell’eroina. Le ho raccontato tutto: ho accettato di curarmi, capisco di avere un problema…”.

Queste considerazioni rimandano all’incapacità di questi ragazzi di reggere e contenere la rabbia e l’angoscia generate dalle problematiche della vita quotidiana, come se non avessero luoghi o funzioni nel loro ambiente di vita capaci di contenere la loro sofferenza aiutandoli ad elaborarla.

 

Il 10 ottobre prossimo festeggeremo in tutta Italia la terza edizione della Giornata Nazionale della Psicologia, voluta dal Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi, e dedicata quest’anno al tema dell’Ascolto e dell’Ascoltarsi (http://www.psy.it/giornatapsicologia/). Un momento importante per riflettere sull’importanza di un approccio relazionale adulti-ragazzi fondato sulla capacità di accogliere un dolore che spinge dall’interno per essere riconosciuto, ascoltato e quindi espresso in parole.

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