Senso/46

Il DDL Pillon e l’alienazione parentale: scenari preoccupanti in Parlamento

La proposta di Legge del Senatore Pillon recante “Nuove norme in materia di affido condiviso" si preannuncia travagliata ed aperta ad evoluzioni o involuzioni molto significative rispetto ai diritti civili fondamentali dei cittadini adulti e minorenni.

Scrivo questo articolo auspicando di poter condividerne a breve le riflessioni esposte con gli Onorevoli Parlamentari del Molise – Rosa Alba Testamento, Antonio Federico, Giuseppina Occhionero, Anna Elsa Tartaglione – e i Senatori Luigi Di Marzio e Fabrizio Ortis, ai quali certamente mi rivolgerò per la loro importante funzione di rappresentanza della nostra comunità regionale, allo scopo di contribuire alla salvaguardia della dignità, dei diritti e delle prospettive delle famiglie e dei tantissimi bambini e adolescenti interessati dalle separazioni coniugali, a fronte di una proposta di Legge, presentata a giugno 2018 a firma del Senatore Simone Pillon e recante “Nuove norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto della prole e garanzia di bigenitorialità, che si preannuncia travagliata ed aperta ad evoluzioni o involuzioni molto significative rispetto ai diritti civili fondamentali dei cittadini adulti e minorenni. Ciò nell’unico auspicio di anteporre una unità d’intenti sulle principali emergenze che assillano il nostro Paese.

 

L’iniziativa legislativa, che è ancora ad uno stadio iniziale dell’iter di approvazione, auspica di riformare sensibilmente il diritto di famiglia vigente, normato dalla L. 54/2006, attraverso alcuni enunciati centrali dell’articolato che, soprattutto riferiti alle disposizioni riguardanti la realizzazione del regime dell’affido condiviso, non potevano non attivare l’attenzione dello psicologo e operatore del settore.

nicola malorni

Prima di tutto, provo una particolare preoccupazione per la previsione, in via astratta e generale, di tempi paritetici di ripartizione della frequentazione con i genitori per tutti i figli minorenni. A fronte di un approccio freddo e non individualizzato alla ripartizione dei tempi di frequentazione nell’affido condiviso, l’esperienza clinica e di psicologia giuridica, soprattutto, ci insegna che i minorenni variano di età (0-18) e nella varie fasi di sviluppo possono avere esigenze diverse anche rispetto alla quantità di relazione con le figure genitoriali, non dipendenti esclusivamente dall’età anagrafica. Dette esigenze possono infatti variare in base al percorso di vita individuale e familiare, in base a tratti di personalità e soprattutto in base alla qualità delle relazioni tra i membri della famiglia che si modificano costantemente nel tempo. Alla luce di questa breve e non esaustiva elencazione di variabili soggettive e ambientali, il DDL Pillon si porrebbe certamente in contrasto con il principio del superiore interesse del minore come stabilito dalla Convenzione sui diritti del fanciullo, come già interpretato dal Comitato ONU nel relativo volume sull’art. 3, pubblicato da Unicef e,  per l’Italia, dall’art. 117 della Costituzione.

 

Altre fonti di preoccupazioni sono rappresentate nel DDL dalla previsione della mediazione familiare obbligatoria, dall’introduzione della figura del coordinatore genitoriale o alla predisposizione di un “piano genitoriale concordato” tra i genitori finalizzati al contrasto della cosiddetta “alienazione genitoriale”.

Il DDL, infatti, prevede che chi vorrà separarsi dovrà obbligatoriamente rivolgersi a un generico “mediatore familiare” (art.7 e art. 22), figura professionale che trova una sua collocazione proprio nel progetto di riforma (art. 1). La mediazione civile potrà quindi diventare obbligatoria – e, perciò, pregiudiziale alla causa in Tribunale – per tutte le questioni in cui siano coinvolti figli minorenni, auspicabilmente al fine di evitare la lite giudiziaria e fornire alle famiglie degli strumenti (quello del “mediatore familiare” o anche del “coordinatore genitoriale”) capaci di incidere positivamente e dirimere le controversie familiari. Ciò esporrebbe queste famiglie al rischio di interventi “generici”, non regolamentati e non controllati, di numerosissimi “mediatori familiari” o “coordinatori genitoriali” di incerta competenza, senza la garanzia – è proprio il caso di dirlo – che tra questi possano esserci invece consulenti psicologi – molto spesso anche psicoterapeuti (probabilmente di formazione sistemico-familiare), di certo maggiormente qualificati per la gestione trasformativa delle dinamiche conflittuali insite in queste famiglie. Penso, in particolare, ai bambini vittime di violenza assistita che, a causa delle difese psichiche attive in queste condizioni, con il contributo di tali misure, si troverebbero a colludere con un sistema adultocentrico che non “vede” né “ascolta” la loro sofferenza. Mi spiego meglio.

 

Quel che ha maggiormente attivato la mia attenzione (e preoccupazione) è la legittimazione, anacronistica rispetto all’evoluzione delle conoscenze scientifiche psicologiche in materia, della teoria della cosiddetta “alienazione parentale” (conosciuta anche come PAS, sigla derivata dal termine in inglese Parental Alienation Syndrome), quella che, non suffragata da evidenze scientifiche, molto spesso è utilizzata nelle aule di tribunale per accusare le madri, ma anche i padri, di prevaricazioni e abusi al solo scopo di separare genitori e figli. Questa teoria, postulando una presunta manipolazione psicologica con cui un genitore allontanerebbe (“alienerebbe”) i figli dall’altro genitore, non solo discredita i genitori separandi, sottoponendoli ad una vera e propria “vittimizzazione di natura istituzionale”, ma mette in pericolo lo sviluppo psico-affettivo dei figli, rappresentati “falsamente” come vittime (presunte) di maltrattamenti familiari da parte del “genitore (presunto) alienante”. Rappresentazioni ambientali (familiari e istituzionali) che in età evolutiva rischiano pesantemente di mutare, a livello intrapsichico e relazionale, in identificazioni in grado, nel medio-lungo periodo, di distorcere le identità dei figli, condizionando patologicamente lo sviluppo della loro personalità.

 

Della cosiddetta “alienazione parentale” – è opportuno ricordarlo – se ne parlava già nel contratto di governo stipulato da Lega e Movimento 5 stelle, dove alla voce «Diritto di famiglia» il fenomeno veniva definito «grave» e si faceva riferimento all’introduzione di norme per contrastarlo.

Un destino non facile per questo “costrutto psichiatrico” introdotto nel 1985 dallo psichiatra forense Richard Gardner, che, nonostante ne sia stata decretata l’infondatezza scientifica a livello internazionale, in Italia, ancora oggi, tende ad alimentare confusione anche grazie al contributo di posizioni autorevoli, della cui buona fede non possiamo certamente dubitare, come quelle, ad esempio, dell’attuale ministra Giulia Bongiorno e di Michelle Hunziker, che si esprimono in favore dell’alienazione genitoriale a nome della fondazione Doppia difesa.

Di parere opposto è invece il magistrato Fabio Roia, presidente di Sezione del Tribunale di Milano e autore, tra l’altro, di un recente saggio intitolato Crimini contro le donne, politiche, leggi e buone pratiche (edito da Franco Angeli), che l’ha definita «una sorta di moda che va fermata».

 

Stiamo parlando, ritengo, di stereotipi culturali che rischiano di minare profondamente, con la collusione di Istituzioni garanti dei diritti alla salute dei cittadini, lo sviluppo di migliaia di bambini e adolescenti italiani.

L’obbligatorietà di una distribuzione aritmetica equa dei tempi di frequentazione dei figli di genitori separati, di una mediazione civile o di un coordinamento genitoriale obbligatori che contrastino la conflittualità ipotizzata in presunte situazioni di “alienazione genitoriale”, rischia di concretizzarsi in migliaia di “pacchi bomba equamente distribuiti tra le mura domestiche” di inconsapevoli cittadini italiani, adulti e minorenni.  Autorizzando a “norma di legge” congetture teoriche non suffragate da evidenze scientifiche, anzi alimentate da posizioni ideologiche e stereotipate, di fronte al rifiuto di un bambino di incontrare un genitore, di solito il padre, molti giudici tenderanno a dire che la madre ne manipola in qualche modo l’emotività. Quando, invece, questo rifiuto potrebbe esser legato ad una violenza assistita (anche di natura psicologica, non evidente in ematomi o ferite fisiche) che gli ha ovviamente procurato dei traumi e delle sofferenze, e quindi, l’attivazione di difese psichiche di evitamento e di distanziamento che ne condizionano (in questo caso sì) il comportamento. Non è attraverso queste misure che è possibile attuare una efficace prevenzione delle conflittualità familiari.

 

In Italia si sta diffondendo una pericolosa cultura della vita familiare e di coppia che interpreta la violenza esclusivamente come un “sintomo” o come un conflitto che è possibile gestire o “curare” con la pratica della mediazione familiare o con la terapia di coppia, sottovalutando le – a volte vitali – misure protettive che possono contrastare o ridimensionare le frequentazioni del genitore violento.

La violenza intrafamiliare, che non ha un’origine esclusivamente intrapsichica e conflittuale, ma poggia anche su fattori economici, ambientali, culturali, rischia di essere meccanicamente associata alla chimera della PAS, che non ha alcun fondamento scientifico, trascurando, al di là di (sempre possibili) interventi di mediazione familiare o di coordinamento genitoriale auspicabilmente gestiti da psicologi, l’appropriatezza di percorsi articolati da costruirsi con il contributo di assistenti sociali, psicologi, medici, avvocati, non trascurando di poter, provvisoriamente, anche paralizzare la relazione genitore/figlio, in attesa di trasformazioni familiari che possano, davvero, tutelare i figli nell’interesse primario del minorenne in quanto portatore autonomo di diritti.

La mia esperienza clinica mi mostra quotidianamente come la visione adultocentrica di operatori del sociale, avvocati, giudici, impedisce di “vedere” e “ascoltare” al di là di etichette, come quelle della PAS, i bambini e gli adolescenti resi, proprio dalle Istituzioni che ne dovrebbero tutelare la vita, “invisibili” e inascoltati.

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