Senso/45

Ricoverare la paura nelle tende. Psicologi tra i soccorritori

Nelle tendopoli allestite dopo il sisma hanno ricoverato le paure dell’ignoto, delle forze distruttrici della natura, della solitudine, della sofferenza e naturalmente la paura più grande, quella della morte.

Ho visitato l’altra sera la tendopoli di Guglionesi, un vasto raggruppamento di tende situato nei pressi del campo sportivo, destinato ad accogliere nel prossimo futuro circa 200 sfollati tra adulti e bambini. Un riparo mobile, di quelli utilizzati dall’Uomo per usi prevalentemente militari o per ricoveri di emergenza a seguito di disastri naturali. Un luogo che evoca il pericolo scampato, la perdita di casa, talvolta la perdita di persone care: un campo sportivo caricatosi improvvisamente di significati emozionali che rimandano al confronto con la paura dell’annullamento, della catastrofe, della morte.

Arrivavo mentre un folto gruppo di donne e uomini riceveva il Cristo a conclusione di una messa celebrata all’aperto; da lontano udivo arrivare le voci tuonanti di bambini felici che di tanto in tanto sbucavano da qualche angolo, in corsa verso aree che a me restavano ignote disorientandomi; qualche passo più in là un altro gruppo di piccole donne sedute sulle sedie davanti l’ingresso di una tenda, come forse erano solite fare in paese davanti casa, erano a raccontarsi dell’incontro con i tecnici, dell’agibilità di casa e della paura di non poter tornare: rituali in grado di incanalare le paure domandole attraverso il conforto del soccorso comunitario, dei legami affettivi e di incontri e dialoghi tranquillizzanti.

Dentro le tende hanno ricoverato la paura dell’ignoto, la paura delle forze distruttrici della natura, la paura della solitudine, della sofferenza e naturalmente la paura più grande, quella della morte, in cui molte delle altre, di fatto, convergono. Sono paure profonde, paure che dissestano l’integrità psichica individuale, che chiamano in causa, attivandolo potentemente, il patrimonio genetico della specie, che innesca risposte adattative di allarme e di salvaguardia di fronte a stimoli che segnalano la presenza o la probabilità di un pericolo, risposte istintive create apposta per favorire il formarsi o il rinforzo di legami affettivi e sociali. Mentre osservavo i volontari della Croce Rossa e della Misericordia impegnati con la frittura di pesce donata dal Comune di Termoli, pensavo all’importanza dei volontari che con turnazioni ininterrotte dal ferragosto, al di là dell’aiuto concreto in azioni di assistenza quali la somministrazione di cibo o l’offerta di giacigli ove passare la notte, assicurano la presenza e l’assistenza utile ad allontanare lo spettro della solitudine, che ha spesso, in questi casi, il sapore anticipatorio della morte.

E vi sono anche gli psicologi che, rispondendo ad una precisa richiesta di assistenza da parte dei cittadini, si stanno occupando, in numero sempre maggiore, attraverso le associazioni di volontariato, di garantire uno spazio per l’ascolto, uno spazio di consultazione che possa dare la possibilità agli sfollati, adulti e bambini, di condividere, ricordare, “mentalizzare” esperienze vissute su un piano prevalentemente emozionale e corporeo, così da contrastare gli effetti dannosi del terremoto. Sono lì, gli psicologi, perché sanno che i confini della paura, quella che oggi si tenta di contenere all’interno delle tende, potrebbero dilatarsi e trasformarsi in stati ansiosi o d’angoscia, non più circoscritti a fisiologiche risposte d’allarme ad eventi traumatici, ma a sentimenti di impotenza e di disperazione che soltanto un valido tessuto di supporto sociale può curare.

Fra gli sfollati possono esserci, infatti, individui ipersensibili a situazioni traumatiche che svilupperanno attese angosciate di minacce imprecisate, irrazionali, destabilizzanti. Essi potranno venirsi a trovare in condizioni di forte insicurezza, privati come sono di confini contenitivi che li rassicurino. Le reazioni ad eventi simili possono essere molto diverse fra loro: ho ascoltato di madri che, pur avendo le case agibili, hanno chiesto di ricoverare in tenda i loro bambini perché terrorizzati, bambini che rischiano di interrompere ogni rapporto fisico, verbale e affettivo con il proprio ambiente di vita, in un disperato tentativo di autoconservazione. E terrorizzate dovevano essere anche le loro madri che hanno deciso di abbandonare le mura domestiche seguendo il corso di un istinto che spinge, in questi casi, alla fuga.

Spesso sono queste condizioni il terreno fertile per lo sviluppo di disturbi d’ansia che procurano panico, quello in grado di travolgere chi si sente psicologicamente isolato, al di fuori di un contesto di norme e di significati stabili cui poter fare riferimento. Spinge a fuggire e a ripararsi un sentimento di impotenza e di solitudine che può essere alla base di disturbi d’ansia importanti, ma può anche essere il risultato di una disorganizzazione sociale oltre che di un disagio interiore, legato alla percezione dell’isolamento, appunto, che impedisce di trovare conforto negli altri.

In questi casi, l’ansia (che nella maggior parte delle situazioni esistenziali può esserci molto utile permettendoci di metterci in salvo) può far preoccupar più del dovuto, dal momento che l’immaginazione continua a lavorare anche in assenza di stimoli minacciosi. Si innesca in questo modo un’attesa eccessiva del negativo, non giustificata dal “reale” ma frutto di un lavorio della mente che produce immagini e pensieri carichi di angoscia. Tutto il sistema psico-fisico dell’individuo ne risulterà alterato: i surreni liberano una quantità di ormoni sempre più rilevante producendo stanchezza, insonnia, sonni agitati, pensieri compulsivi e alterazioni del ritmo cardiaco, tutti indizi di uno stato ansioso abnorme.

Le reazioni alla paura possono muoversi, infatti, lungo un continuum che va dalle reazioni fisiologiche che promuovono i legami di attaccamento al prossimo e alla vita fino al polo opposto che invece contrasta le relazioni sfociando nell’inibizione, nell’evitamento, nell’appiattimento affettivo e quindi nel disturbo mentale. Non è facile qui comprendere dove cessi la normalità e dove abbia inizio la patologia e un intervento tempestivo di tipo psicologico su questi stati mentali può prevenire gravi problematiche. La presenza degli psicologi all’interno delle tendopoli va quindi incoraggiata e sostenuta: sono loro che, avvalendosi consapevolmente di metodiche di cura e assistenza profondamente radicate nella relazione umana, possono, non soltanto riconoscere i prodromi di un disagio che può covare la sua forza distruttiva proprio nell’assenza di ascolto e di riflessione sugli stati emozionali, ma anche facilitare e implementare le occasioni di confronto integrativo con stati emozionali che altrimenti resterebbero dissociati dalla consapevolezza, con grave danno per l’integrità psico-fisica.

Grave sarebbe per una comunità sottovalutare quelle che in alcuni villaggi messicani, ad esempio, gli abitanti chiamano semplicemente “malattie da spavento”: essi credono che chi ne è colpito perde l’anima, che viene trattenuta da alcuni spiriti maligni e può essere ricongiunta al corpo da cui è fuggita soltanto attraverso le pratiche magiche di una “guaritrice di spaventi”. La nostra psicologia afferma invece, da una prospettiva scientifica, che la cura dell’anima è facilitata dalla presenza e dalla partecipazione dei nostri simili ai nostri lutti, in particolare di quelle persone da cui si può ricevere un supporto emotivo, in grado di consentire l’espressione del dolore, della paura, della rabbia e di altri stati emozionali traumatici, e al tempo stesso di contenerli. Gli psicologi volontari della SIPEM SOS Molise sono nelle tendopoli perché l’umanità ha bisogno di “socializzare” le proprie paure, definendole e comprendendole, per renderle più tollerabili e consentirsi di salvaguardare il proprio sentimento di continuità.

In questi giorni si è parlato di “allarmismo”, di “psicosi collettiva”, di esagerazioni pericolose per il sentimento di sicurezza della popolazione: la nostra cultura, iper-informatizzata e capace di generare notizie da tutto il mondo in tempo reale, ci vincola ad un’attesa del “razionale” che ci porta a prefigurare una spiegazione logica dei fenomeni anche quando, come nel caso dei terremoti, ci addentriamo in un ambito di esperienza che non è possibile conoscere né prefigurare né controllare. Questo comporta il rischio per tutti noi di vivere in uno stato di allarme permanente, esponendoci ad un mondo rappresentato come estremamente pericoloso e incontrollabile. Le reazioni possono essere o quella dell’angoscia incontenibile e del panico destabilizzante, o quella del controllo ossessivo che porta all’inibizione e al blocco, alimentando al contempo i circuiti dell’angoscia.

Le attività psicologiche mirano anche a questo: a preservare la conoscenza e la lucidità utili a distinguere le paure amplificate, gonfiate, inventate e manipolate da quelle concrete e realistiche. Di fronte alle minacce reali, inoltre, un compito della psicologia, che è scienza dell’ascolto e della comunicazione efficace, è quello di promuovere il supporto nelle reti sociali, intervenendo anche attraverso azioni formative sugli stessi soccorritori, implementando forme di solidarietà basate sulla conoscenza scientifica e quindi capaci di rendere la “cura della paura” meno gravosa e più efficace nel breve, medio e lungo periodo.

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