Cronache

Il medico degli aborti: “Applico la legge e non sono ipocrita. Ma alle donne dico pensateci bene”

Interruzione di gravidanza chirurgica, RU 486, sollievo e rimorsi. Michele Mariano è l’unico ginecologo non obiettore che opera in Molise, dove dirige il centro di procreazione responsabile, al primo piano del Cardarelli. Qui si effettuano circa 400 interruzioni volontarie di gravidanza ogni anno ("oltre a quelle clandestine, di cui non so nulla"). Vengono anche da fuori regione, così come alcune molisane preferiscono andare fuori Molise per abortire, terrorizzate da essere viste o riconosciute. "La mia unità - racconta il ginecologo che per questo progetto ha sacrificato carriera e tempo libero - è attentissima alla privacy delle pazienti, perché sono consapevole che si tratta di una scelta complessa e mai scontata, come invece qualcuno vorrebbe credere».

Non è vero che in Molise abortire è impossibile, come sostengono molti giornalisti su molte riviste nazionali. Non è vero che tutti i ginecologi che lavorano negli ospedali di Campobasso, Isernia e Termoli sono obiettori di coscienza. Ce n’è uno che l’interruzione volontaria di gravidanza, come è tecnicamente definito l’aborto, disciplinato dalla legge 194 del 1978, la pratica. «Non perché mi diverta, ma perché io applico la legge. E la legge dice che le donne sono libere di scegliere entro i primo 90 giorni di gestazione se mettere al mondo un figlio o no. Non è una decisione che spetta a me».

Michele Mariano ha 65 anni, ha iniziato a lavorare a Termoli ai tempi di Vito De Palma, si è spostato a Ginecologia di Campobasso nel 1985, dove è stato anche primario facente funzione. Da cinque anni dirige il “Centro regionale per la procreazione responsabile, la contraccezione e le malattie sessualmente trasmesse”, al primo piano dell’ospedale Cardarelli. Un posto dove si entra con la disperazione addosso e dal quale si esce, quasi sempre, con uno stato d’animo che oscilla tra sollievo e rimorso. Perché, spiega lui, abituato ad andare dritto al punto e senza paura del giudizio di colleghi meno pragmatici e meno comprensivi,«l’aborto non è mai facile, è sempre doloroso dal punto di vista psicologico. Ma, ripeto, è una possibilità prevista dalla norma. E io sono un medico, non un confessore».

Il suo mondo, dove lavora praticamente senza sosta, pochi riposi, pochissime ferie, un personale «straordinario» ma ridotto all’osso, si fonda sul concetto di privacy. «C’è scritto da qualche parte “interruzione volontaria di gravidanza” o, peggio ancora, “aborto”?». Da nessuna parte, in effetti. Il suo nome invece è a caratteri cubitali, «perché io non mi preoccupo di nascondere la mia attività. Sono un ginecologo». E i bambini li fa nascere, seguendo le sue pazienti nel percorso che prelude alla maternità, oppure impedisce loro di nascere «se le donne vogliono questo e se la legge lo consente». Indipendentemente dall’etica, e dal diritto sacrosanto ad avere una posizione favorevole o contraria rispetto al tema, l’aborto entro i primi tre mesi di gestazione è una possibilità prevista dalla legge.
«Chi lo vive come un peccato è per remore religiose – precisa il dottor Mariano – non certo perché sia vietato oppure perché le donne che scelgono di farlo commettano illeciti».

Il Molise è la regione con la più alta percentuale di medici obiettori. In pratica tutti tranne lei.
«E questa è una piaga, sono sincero. Però non è corretto affermare che l’interruzione volontaria di gravidanza in Molise non si possa fare. Con questa unità operativa semplice dipartimentale, dove c’è il sottoscritto in qualità di unico medico “non obiettore” su una trentina di ginecologi che lavorano negli ospedali di Campobasso, Isernia e Termoli, la legge viene rispettata».

Lei dunque garantisce il rispetto della legge 194 per le donne molisane…
«Mica solo molisane. Vengono anche da fuori regione, così come alcune molisane preferiscono andare fuori Molise per abortire, terrorizzate da essere viste o riconosciute. La mia unità è attentissima alla privacy delle pazienti, perché sono consapevole che si tratta di una scelta complessa e mai scontata come qualcuno vorrebbe credere».

Michele Mariano lavora con due ostetriche, un’infermiera e una caposala.
«Tutte non obiettrici, ovviamente, che ora sono contente di seguire questa attività. Le donne che si rivolgono a questa struttura conservano tutte un bellissimo ricordo del personale. Peccato che il personale sia così scarso, e che ci sia solo io come medico». Lo dice sapendo benissimo che nessuno verrà a dargli rinforzi. Consapevole che i sacrifici fatti finora andranno avanti a oltranza. Riposi zero, pochissime ferie da programmare facendo i salti mortali, una vita professionale interamente consacrata al dipartimento, dove la sua carriera si è fermata. Da primario facente funzione dalla Ginecologia-Ostetricia del Cardarelli al centro di “procreazione responsabile”.

E’ stata sua la scelta, dottor Mariano?
«Intendiamoci: io sono felice di stare qui e dare aiuto alle donne senza le ipocrisie di tanti colleghi. Ma da qui è dire che la scelta è stata completamente libera ce ne passa. Diciamo che è stata una scelta costretta, anche senza pistola alla tempia».

In che senso?
«Beh, semplice. Iorio escogitò con Sabusco e la vecchia cricca che controllava la Asrem di fare una specie di convenzione con la Cattolica, e diedero in affidamento il reparto di ostetricia proprio alla Cattolica. Che ovviamente premeva per farmi andar via, ma io avevo la responsabilità di una unità operativa semplice a valenza dipartimentale, essendo quello con più titolo. Così sono finito qua..»

Però ci è venuto di sua spontanea volontà…
«Sì. D’altra parte le mie pazienti, quelle che chiedevano l’interruzione volontaria, finivano sempre in coda, venivano discriminate, si trovavano gomito a gomito con le donne che dovevano partorire. Dolore, gioia, tutto insieme, senza privacy, con il peso del giudizio morale. Insomma, non era sostenibile. E quindi penso che la creazione di questo centro sia stata positiva».

E ora?
«Ora io lavoro qua, in un’altra unità dipartimentale, e non posso fare nulla in ostetricia, nemmeno un cesareo. C’è gente con meno requisiti di me a dirigere l’unità operativa complessa, anche se questa è uguale in fondo. Sotto sotto mi hanno messo in una torre di avorio».

Michele Mariano ride. Ma torna subito serio e concentrato quando illustra gli aborti, le sue diverse tipologie. «Quello chirurgico classico è il più frequente: si deve fare entro i primi 90 giorni della gestazione. La donna ne fa richiesta presentando un documento di identità e sottoponendosi a controlli minuziosi per verificare epoca di gestazione, eventuali malformazioni, eccetera».

E se la gestazione è antecedente a quanto dichiarato dalla paziente?
«In questo caso la mando via. Anche per un solo giorno in più. la legge dice 90, e devono essere 90. Se no sarebbe un aborto clandestino, e io di quelli non ne ho mai fatto mezzo. Ci sono ragazze, soprattutto minorenni, che dicono una mestruazione per un’altra, che imbrogliano sul periodo di gestazione. Vengono mandate via con gentilezza e spiegando loro che la legge si deve rispettare senza eccezioni di sorta».

E si convincono?
«Per forza. Poi, se qualcuna ricorre ad aborti clandestini, io posso solo sospettarlo e non posso farci nulla».

A parte quello chirurgico, lei fa anche l’aborto farmacologico, quello con la controversa RU 486?
«Questo è un nodo importante da sciogliere, un punto nevralgico della questione. L’Aifa infatti impone il ricovero obbligatorio di 3 giorni per la somministrazione della RU 486, perché a livello nazionale si tende a frenarlo, a non renderlo troppo facile. Questa interruzione volontaria di gravidanza va fatta entro i primi 49 giorni di gestazione. La direttiva regionale obbliga perciò il ricovero, anche se non ce ne sarebbe alcun bisogno. Io come faccio, col personale che ho a disposizione e solo io come ginecologico, a tenere tre giorni le donne? Non posso».

Dunque lei non lo fa, l’aborto farmacologico?
«Sì, lo faccio, ma secondo una modalità particolare. La paziente viene, se è nei primi 49 giorni e la sua condizione lo consente prende la pillola, poi però deve firmare volontariamente le dimissioni e tornare dopo 48 ore, quando viene aperta un’altra cartella clinica. In regioni come Marche o Emilia Romagna funziona così. In un periodo segnato dall’esigenza di risparmiare bisognerebbe modificare le linee e correggere le disposizioni».

In pratica la Regione dovrebbe permettere la RU 486 in regime di day hospital?
«Ma ovvio! Non serve chissà cosa e semplificherebbe molto le cose. Inutile rendere complicato l’aborto solo per evitare che a esso si ricorra con troppa facilità. Non ci sono aborti facili. Nessuna donna abortisce con facilità. E’ sempre traumatico, anche se gli obiettori non lo sanno o non vogliono saperlo».

I medici obiettori praticano l’aborto terapeutico però, giusto? Quello che viene fatto in caso di gravi malformazioni, o di pericolo per la gestante e gli embrioni?
«No, le do questa notizia. Non lo fanno. L’aborto terapeutico rientra nella legge 194, quindi toccherebbe al sottoscritto fare la pratica e tutto il resto. Ma è pericoloso, avrei bisogno di aiuto e sostegno. Così non è il caso perché si tratta di un intervento complesso che può durare anche 4 o 5 giorni, che richiede una stimolazione continua. Va fatto in regime di ricovero, e dunque siamo al punto di prima. Ostetricia qua accanto non li fa, e alla fine ho risolto mandando le pazienti da colleghi che lavorano in reparti di ospedali a Roma, Avellino, insomma in posti dove l’ipocrisia non è così radicata. Fortunatamente ho molte conoscenze fra ginecologi bravi e affidabili ai quali telefono quando è necessario procedere a un aborto terapeutico».

Come funziona una interruzione di gravidanza?
«La donna viene qua, è identificata attraverso documento di identità, fa richiesta di Ivg e viene sottoposta a un controllo ecografico per vedere l’epoca di gestazione, eventuali malformazioni o eventuali problematiche. Si rilascia un documento in cui si spiega perché richiede l’aborto, che se è entro i 90 giorni non si può negare. Quindi viene prenotata, e nel giorno di prenotazione fa tutti gli esami e apriamo una cartella di day hospital. Poi torna per l’intervento»

Quanti giorni trascorrono tra la prenotazione e l’aborto?
«Un decina. Per legge devono passare almeno sette giorni, per dare la possibilità alla donna di pensarci bene. O di ripensarci»

E capita che qualcuna ci ripensi?
«Certo che capita. Io d’altronde invito sempre a ripensarci, fino a 30 secondi pima dell’intervento. Non esistono contratti, anzi: cerco di ragionare con lei e consigliarle di soprassedere se le condizioni permettono di far nascere il bambino».

E ci riesce, a convincerle?
«A volte sì. E ne sono ben felice. Se posso salvare qualche vita lo faccio volentieri».

Lei considera l’embrione una vita?
«Lo è, sicuro. Ma sarebbe ridicolo sostenere che io tolga di mezzo una vita quando l’aborto è disciplinato da una legge dello Stato. Io credo di essere realista e di non essere ipocrita. Guardo la problematica nelle sue molte sfaccettature, gli altri invece non la vogliono nemmeno sentire, non le guardano manco in faccia queste donne tormentate dal dubbio».

Con quale frequenza si praticano aborti in questa unità dipartimentale?
«Ne faccio circa 400 all’anno fra chirurgico e farmacologico. Quello chirurgico è il più frequente: siamo sopra i 300».

Sono tantissimi dottore…
«Dice? Beh, la media nazionale e anche regionale è scesa. Anni fa, quando lavoravo al Cardarelli con il dottor Calabrese e sua moglie, entrambi non obiettori, c’erano molte più richieste».

Chi sono le donne che ricorrono all’aborto?
«Di tutte le età e di tutti i ceti sociali. Accomunate dal fatto che hanno i santini di padre Pio nel portafogli e si fanno il segno della croce prima dell’intervento, che avviene in anestesia. A parte questo sono diversissime. Ci sono le ragazzine che non vogliono dirlo ai genitori e vengono accompagnate dal giudice tutelare dagli assistenti sociali. Ci sono le universitarie. Le trentenni, le quarantenni. Casalinghe, donne in carriera. Le figlie e le nipoti di politici che mi chiamano. Ci sono donne ricche e donne povere. Ci sono molte straniere, soprattutto. Ora siamo al 40 per cento di cittadine straniere che ricorrono all’aborto».

I compagni o i mariti restano con loro?
«Qua entrano solo le donne, per la privacy. E sto attento a non metterle insieme se abitano nello stesso paese. Più di questo non posso fare».

Le donne che scelgono l’aborto a suo avviso sono ignoranti in fatto di contraccezione?
«C’è molta ignoranza su questo tema, specie fra le minorenni che arrivano anche tre volte e si prendono una strigliata. Io dico a tutte di tornare dopo 15 giorni per il controllo e in quell’occasione le informo sui metodi contraccettivi. Però anche donne adulte possono essere a digiuno di pillole anticoncezionali, spirali, contraccettivi. In questo il consultorio ha una funzione importante. O almeno, dovrebbe avere una funzione importante».

Perché dice “dovrebbe”?
«Perché nella realtà questo non funziona adeguatamente. E poi è diretto da un pediatra, che con tutto il rispetto…»

E come mai?
«Misteri della fede. Tempo fa la Asrem fece un avviso pubblico per affidare la direzione del consultorio a figure specializzate. Io feci la domanda, naturalmente sarebbe stato un incarico gratuito per creare un collegamento fra le due strutture. Però quando io ho risposto hanno annullato l’avviso e tempo dopo hanno dato la gestione a un pediatra. Non giudico nessuno, dico solo che se il consultorio funzionasse meglio ci sarebbe una maggiore consapevolezza della contraccezione e gli aborti sarebbero inferiori».

Che rapporto ha con la Asrem?
«Questi nuovi sono venuti da poco, non ho nulla da dire. Quelli precedenti erano pessimi, lo dico senza nascondermi. Hanno fatto solo i loro interessi».

Come si sente a essere l’unico non obiettore del Molise?
«Non mi sento ipocrita, e questo mi garantisce. Credo che una percentuale di medici obiettori tanto alta, che supera il 93 per cento, in Molise sia dovuta al fatto che siamo una regione piccolissima, dove ci si conosce tutti. Io non mi nascondo, anzi: come può vedere il mio nome è scritto bello grande all’ingresso».

Già. Anche troppo
(ride) «E’ un dispetto a chi mi censura. A chi mi giudica. Io sono felice di essere una voce fuori dal coro. Così come sono realizzato di essere un ginecologo che fra le sue pazienti ha molte donne che prima di mettere al mondo un bambino sono passate di qua. E che, una volta incinte e desiderose di fare un figlio, hanno chiesto al sottoscritto di seguirle nella gravidanza». (mv)

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