La macchina del tempo

Quando al Vescovo Bernacchia fu impedito di entrare a Termoli

Il ricordo della morte, avvenuta cinquant’anni fa, di mons. Bernacchia, s’intreccia con le vicende che hanno dato origine alla rivalità con Larino. Amministratori comunali, autorità fasciste, benpensanti e persino sacerdoti alla guida del movimento di protesta cittadina contrario alla decisione di nominare Bernacchia vescovo di Larino e Termoli. L’inadeguatezza e la strumentalità di una classe dirigente che scatena il finimondo per una pura e semplice questione nominale.

Due importanti anniversari riguardanti l’ex vescovo di Termoli mons. Oddo Bernacchia sono venuti a cadere recentemente. Il 50° della sua morte (13 Novembre 1964) e il 90° della sua nomina a vescovo della nostra città (28 ottobre 1924). Se il primo dei due è stato ricordato, è caduto invece nel dimenticatoio il secondo, nonostante rappresentassero l’inizio e la fine del suo ministero pastorale.

Bernacchia ha governato per trentasei anni le diocesi di Larino e Termoli, autonomamente distinte, ma riunite sotto la sua persona. Dal 1960 al 1962 quella sola di Termoli. Dunque il suo è stato un ministero pastorale lungo, che ha attraversato quasi per intero il fascismo e si è prolungato nel dopoguerra fino ai primi anni Sessanta. Il vescovo marchigiano è stata una figura dominante, guida non solo morale e religiosa ma anche politica per i cattolici impegnati nella Dc dopo la fine del fascismo. Sarebbe arbitrario isolare i vari e complessi aspetti del suo operato al solo scopo di trarne giudizi di comodo.

Entrambi i ruoli mons. Bernacchia li ha esercitati con indiscussa intelligenza, oltre che con capacità e fermezza, al punto da condizionare per lungo tempo la realtà di Termoli. Una figura venerata fino alla “beatificazione” dai tanti variamente beneficati, ma che ha inevitabilmente acceso anche contrasti, se non dure avversioni.

Non è qui il caso, né io mi ritengo il più adatto, di ripercorrere criticamente questo lungo esercizio di attività. Anche perché in parte già condotto negli anni da studiosi seri quali Peppino Mammarella, Don Giulio Di Rocco, Sergio Sorella, per citare solo i principali. Anche il suo rapporto col fascismo appare ormai correttamente “inquadrato” dopo l’ampio contributo del prof. Luigi Picardi, cui ha fatto seguito di recente quanto riportato nel libro “Termoli in camicia nera”.

Tuttavia ben vengano altri interventi su mons. Bernacchia, tanto importante e incisiva è stata la sua presenza in mezzo a noi. Ciò che invece sarebbe opportuno evitare è ridurre il vescovo a un santino, come spesso si tende a Termoli. Ma è un vizio, purtroppo, che qui emerge anche quando si tratta di altri personaggi della storia recente della città.

L’intensa vita di Bernacchia dalle nostre parti è stata segnata all’inizio da amarezze e dispiaceri, di cui – va detto subito – egli non aveva colpa. Anche gli ultimi tempi della sua esistenza sono stati per lui fonte di grande pena: tradito da suoi più stretti collaboratori, isolato e abbandonato lontano da Termoli, nonostante i tanti suoi estimatori.

Oddo Bernacchia, marchigiano di Fano, è nominato vescovo da Papa Pio XI il 24 giugno del 1924, a quarantaquattro anni, e assegnato alla diocesi di Larino. Anche Termoli a quell’epoca attende il suo nuovo vescovo dopo morte di mons. Rocco Caliandro, ma a differenza delle altre volte il Vaticano decide che a ricoprire l’incarico sia lo stesso Bernacchia, pur mantenendo separate le due diocesi.

La bolla di nomina, tutta in latino e munita di sigillo papale, indica esplicitamente che, a partire dal 28 ottobre 1924 «Oddoni Bernacchia» è nominato vescovo di Larino e Termoli. Proprio così, anteponendo nel testo il nome della città frentana a quella di Termoli. Apriti cielo! Come avere dichiarato la guerra ai termolesi.

A ergersi per primi a difesa della Diocesi locale «che conta un millennio di storia, ricca di censo e di tradizioni culturali e religiose» è il sindaco in carica, Gennaro Petti, seguito dal segretario cittadino del partito fascista, l’avv. Giovanni Muricchio, da altri amministratori e maggiorenti locali. Uniti a loro nella protesta anche cinque canonici e l’allora semplice sacerdote Biagio D’Agostino (in seguito vescovo).

Costituito in comitato di lotta e mobilitati i cittadini sulla base, falsa, dell’abolizione della sede vescovile, il gruppo da quel momento dà vita a un’attività frenetica, che, visti i risvolti di ordine pubblico, inizia a preoccupare seriamente le autorità e le forze di polizia.

Ogni “santo in paradiso” viene sollecitato ad attivarsi per sventare «l’umiliazione», dall’ex deputato di Termoli Giuseppe Leone, al sottosegretario alle Comunicazioni, il guglionesano Mario Carusi.

Ma si tratta di un’agitazione poco lucida e, seppure dispiegata con ampio uso di mezzi e di forze, inevitabilmente senza sbocco. I termolesi sentono e vivono la decisione papale come una menomazione grave del ruolo e del prestigio della città. Sono indotti a pensare che è in gioco una questione che riguarda lo sviluppo futuro della città e quindi la loro stessa esistenza.

Dopo tanto scompiglio, alla fine i termolesi del comitato di agitazione fanno sapere di accontentarsi che nella registrazione dell’atto pontificio su quello che è considerato il bollettino ufficiale della Santa Sede, il nome di Termoli venga prima di quello di Larino. Dunque una pura questione nominale, ed è tutto dire sulle ragioni della sollevazione.

Ingenuo però attendersi che il Papa ritorni sulle sue decisioni e così chiusa questa soluzione, il comitato di agitazione decide di portare direttamente la rivendicazione in Vaticano, facendosi ricevere dal segretario di Stato cardinale Gasparri e avanzando nel contempo un disperato ricorso alla Sacra Rota. Infine, viste le porte chiuse, chiedendo all’on. Carusi di attivarsi affinché il Governo non conceda la sua approvazione (il cosiddetto regio exequatur) alla nomina vescovile. Tutto inutile.

Quando nei primi mesi del 1925 l’incolpevole Bernacchia annuncia a Petti di volere fare il suo ingresso in Termoli per prendere possesso della diocesi, il sindaco (tra i più inadeguati che la città abbia avuto) gli risponde che dopo l’esito negativo della missione in Vaticano la cittadinanza «si è maggiormente inasprita per la subita ingiustizia e risoluta più che mai a persistere nell’agitazione».

Dopo avere definito «intempestiva e poco prudente la Sua entrata in Termoli», invita il presule a desistere. Nel caso volesse insistere, l’ineffabile Don Gennaro fa sapere di «declinare ogni responsabilità su possibili spiacevoli incidenti». In sostanza fa balenare la minaccia di riservare lo stesso trattamento riservato due anni prima al predecessore mons. Caliandro, aggredito verbalmente e, si dice, con le pietre, per essersi rifiutato di benedire un altarino durante la processione del Corpus Domini. E chiude con un untuoso e insincero «Le bacio il sacro anello». Incredibile, ma tutto vero.

Sfibrata dai rifiuti opposti alle sconclusionate rivendicazioni del comitato termolese, la popolazione alla fine diminuisce, fino a cessare del tutto l’agitazione. Nonostante il pesante avvertimento, poco più di un anno dopo lo scoppio della “rivolta antipapale” mons. Bernacchia può finalmente fare ingresso in pompa magna a Termoli. È l’8 dicembre 1925.

Di quella protesta restano, oltre che la prova dell’inettitudine di sindaco, amministratori e loro seguaci a sostenere le vere ragioni della città, la nascita di una incomprensibile e inutile rivalità con Larino. Rivalità che, rinfocolata a distanza di tempo col tentativo di Termoli di “scippare” il tribunale alla città frentana, lascerà tra le due comunità una scia di risentimenti non del tutto sradicati ancora oggi.

Quanto a Bernacchia, contribuirà anche lui, qualche anno dopo con la scelta di spostare la sua residenza a Termoli, ad alimentare questo risentimento, soprattutto nei larinesi.

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